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Domenica 24 Agosto "Quando pregate dite..." Letture Nel giorno che Dio il SIGNORE fece la terra e i cieli, 5 non c'era ancora sulla terra alcun arbusto della campagna. Allora Dio il SIGNORE fece cadere un profondo sonno sull'uomo, che si addormentò; prese una delle costole di lui, 1 E avvenne che, un giorno, era in un luogo a pregare. Appena ebbe terminato, uno dei suoi discepoli gli disse: 9 “Voi, quindi, pregate così: Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, Cari fratelli e care sorelle, l’idea di questa predicazione nasce dalla lettura di un libro, “La preghiera. Commento al Padre nostro” di Karl Barth. Il testo, che la predicazione utilizza e riprende in più punti, mi è stato consigliato in Facoltà, una volta che io, in buona compagnia di tanti altri e altre, ho manifestato, in quel momento di preghiera che qualcuno di voi conosce e che è noto come “Cultino”, una certa difficoltà a pregare. E a pregare con gli altri. A esprimere la mia preghiera non solo a Dio ma ai fratelli e alle sorelle. Intanto a nutrire difficoltà sulla preghiera non solo sono in “buona compagnia” con molti altri studenti e molte altre studentesse, sono in compagnia anche di ben altri “discepoli” che, come abbiamo appena letto nella versione di Luca, manifestano apertamente la loro incapacità alla preghiera. Ammettiamolo. Anche noi facciamo fatica. Non sappiamo come e quando pregare, cosa chiedere e cosa non chiedere. Ci chiediamo se sia meglio pregare da soli o in comunità, se con le labbra o solo “dentro di noi”, e ci facciamo tanti di quei problemi che, se tutto il tempo che perdiamo a chiederci queste cose lo impiegassimo per pregare, beh, sarebbe tutto di guadagnato. Allora cerchiamo di capire meglio cosa significhi pregare. Una cosa che mi ha sempre colpita, fin da bambina, è che Gesù dice: “Quando pregate dite…” Primo problema risolto. Non vi preoccupate di “come”, della postura del corpo: in piedi, seduti, mani aperte, mani al cielo… tutti gesti belli, ricchi di significato, che possono certo aiutarci. Il Signore però ci dice direttamente “dite”, quindi la postura deve essere prima di tutto una postura interiore, una postura “del cuore”. Prima però di addentrarci in “cosa” dire, ripercorriamo un attimo le difficoltà incontrate anche da altri, perché tra i discepoli di Gesù (che non sapevano pregare) e noi, i discepoli del 2025 (che non sappiamo pregare) ci sono tutta una serie di personaggi che si sono posti le nostre stesse domande e forse ci possono aiutare. Lutero, con una certa rigidità, ci dice che il Signore ci comanda di pregare. Bisogna pregare perché è Dio che lo vuole. E quando Dio comanda bisogna obbedire. Penso che su questo siamo tutti e tutte d’accordo. Magari però ricordandoci perché Dio ci comanda le cose… Ricorderete sicuramente che cosa dice Dio a Mosè quando dà il Decalogo. Vi confesso che, venendo da altra formazione, non mi avevano mai fatto riflettere su questo punto e, quando l’ho scoperto, mi si è certamente illuminato un aspetto della vita. In Esodo 20 Dio dice: “Io sono il Signore, il tuo Dio…” e prima di partire a raffica con i comandamenti aggiunge una cosa che, se omessa, stravolge il senso del discorso. “Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla casa di schiavitù ”. Ecco, ora, possono partire i comandamenti, non prima. Perché i comandamenti non vengono dati da un Dio “capriccioso” che pretende di essere rispettato. No, i comandamenti vengono dati dal Dio di Amore, dal Dio Liberatore, per rendere anche noi liberi, liberi di amare Dio e amarci l’uno l’altra. Non è un caso che Gesù poi precisi di non essere venuto ad abolire la legge di Mosè ma di darle un “compimento” e racchiuda tutto nei due “comandamenti” dell’amore. E Gesù a volte ci lascia davvero spiazzati! Una volta capito che il comando è un regalo che Dio ci fa, è forse meno difficile capire che anche il comando di pregare va letto in questo modo. La preghiera è un dono straordinario con cui Dio ha deciso di mettersi in relazione con noi. E allora davvero come i discepoli bisogna insistere perché ci insegni a pregare perché non possiamo certo buttare via un regalo così importante. Un giorno, parlando col nostro pastore del fatto che spesso non so come pregare (e non sono la sola) lui mi ha detto che quando manifestiamo la nostra difficoltà a pregare, basterebbe ricordare quello che insegniamo ai bambini e poi noi dimentichiamo… una preghiera si costruisce con le tre “paroline cortesi”: Grazie, scusa, per favore. Pensiamoci un attimo. Non è la struttura del Padre Nostro? Non è la struttura del nostro culto in cui prima si rende grazie a Dio, poi ci rendiamo conto della nostra inadeguatezza e di quanto il peccato ci allontani da Dio e infine, certi del suo perdono, la nostra preghiera diventa preghiera di intercessione? Grazie - Scusa - Per favore. E a proposito di intercessione Calvino diceva che la preghiera è fondata sull’intercessione di Gesù Cristo presso il Padre celeste e insisteva sul ruolo che lo Spirito santo ha nella preghiera. Ora, anche su questa affermazione penso che siamo tutti d’accordo. Tra l’altro da questo ruolo di mediatore di Gesù Cristo, nel dire che l’unico mediatore è Cristo, vengono fuori tutte quelle riflessioni a noi evangelici particolarmente care. Quindi, tutti d’accordo. Eppure …quante domande ci facciamo! Ma Dio ci ascolta? Mah… direi di sì. Ma Dio ci esaudisce? Mica sempre… Mica sempre?!?! Se la preghiera viene portata al Padre dal Figlio per mezzo dello Spirito santo, forse è bene non dubitare nemmeno che venga esaudita! Più avanti, in Luca, nella parte che stamani non abbiamo letto, si dice espressamente: “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” e più avanti ancora “ Se perfino voi che siete malvagi, sapete dare doni buoni ai vostri figli, tanto più il Padre che è nei cieli darà lo Spirito santo a quanti lo chiedono”. Ecco allora “cosa” chiedere… lo Spirito! Essere esauditi infatti non significa che le cose debbano andare secondo i nostri progetti. Vi racconto una cosa personale e dopo tanti anni per me ancora dolorosa. Quando si ammalò mio padre, portato via in pochi mesi da una terribile malattia, è logico che abbia pregato e anche che abbia chiesto la sua guarigione. È molto umano questo. Non può stare nella nostra testa, non accettiamo che un padre sia strappato alla famiglia prematuramente. Mio padre non guarì però io riuscii a dirgli, a sussurrargli nell’orecchio: “Babbo, ti voglio bene”. Non posso né voglio entrare in dettagli troppo personali ma vi assicuro che in quel momento per lui era davvero importante sentirselo dire e ancora più per me riuscire a dirlo. Credetemi, ho poi capito che la mia preghiera era stata esaudita ben oltre la mia aspettativa... Ma torniamo al Padre Nostro. Già “nostro”. Il testo di Luca non usa l’aggettivo possessivo. Ma lo fa il parallelo in Matteo. In ogni caso nel momento in cui tutti insieme diciamo Padre, non può che essere “nostro” e noi non possiamo non riconoscerci fratelli e sorelle. E anche Gesù è nostro fratello. Quindi Padre nostro perché Padre mio e di Gesù. Noi siamo figli del Padre in virtù di Gesù e di Gesù crocifisso: è sulla croce che si è compiuta la nostra adozione. Ma nostro anche perché mio e tuo, tu ed io, uniti nella chiesa. No, non siamo soli nelle nostre difficili situazioni. E mai la preghiera può allontanarci dagli altri. La preghiera può solo unirci. Quindi, nella preghiera, dobbiamo certamente donarci l’un l’altra quello che possiamo darci, ma mai mettere la fiducia in noi. Questo ci insegna il Padre Nostro. Ci possiamo aiutare l’un l’altra con le parole ma il dono viene da Dio. Questo ci insegna il Padre Nostro. Possiamo avere dubbi sulla sincerità della nostra preghiera e sul valore della nostra richiesta a Dio ma non sul fatto che Dio ascolti o meno la nostra preghiera. Questo ci insegna il Padre Nostro. Barth diceva che può esistere l’uomo senza Dio ma non Dio senza l’uomo. Perché è Dio che vuole esserci Padre. È Dio che vuole continuare a dialogare con noi. E noi lo possiamo fare attraverso la preghiera. E Calvino diceva che “noi preghiamo con la bocca di Gesù”: ecco allora perché la nostra preghiera è già conosciuta a Dio ancor prima che noi la formuliamo. Ecco, a questo punto, riflettiamo un attimo, perché a volte questa affermazione può portare a conclusioni che anziché avvicinarci alla preghiera, ci allontanano. Ma se Dio già sa di cosa ho bisogno, perché io devo chiedere? Non si rischia di cadere nel devozionismo che tanto ci infastidisce e, ancora peggio, nella superstizione? E’ una domanda che ho sentito e che mi ha fatto pensare. E pensandoci mi è venuto in mente Gesù, nel Getsemani, quando, nella sua piena umanità chiede al Padre di risparmiarlo, se possibile, dalla morte orrenda a cui sta andando incontro ma subito aggiunge, “non però come voglio io, ma come vuoi tu”. Sia fatta la tua volontà, diciamo anche noi nella preghiera che Gesù ci ha insegnato. E quando preghiamo allora non possiamo che riprendere la preghiera che è stata pronunciata dalla persona di Gesù Cristo, indipendentemente dal fatto di usarla come formula esatta (come facciamo nel nostro culto) o solo come modello (grazie-scusa-per favore). Sarebbe bello a questo punto ripercorrere tutte e sei le richieste del Padre Nostro. Vi confesso che quando ho scelto questa predicazione a un certo punto mi sono sentita come “scoppiare”. La testa e il cuore. Mi rendo conto che tante riflessioni potrebbero essere fatte su ciascuna delle sei richieste. Ecco perché Gesù ci ha lasciato il Padre Nostro, la preghiera per eccellenza. Non è possibile analizzare le richieste in un unico sermone, ci vorrebbe un ciclo di predicazioni. Vorrei solo osservare come il Padre Nostro sia diviso in due parti. Le prime tre richieste, in analogia con i primi quattro comandamenti, esprimono la gloria di Dio, sono la causa di Dio. Ma che bisogno c’è di lodare Dio? Se io non lo lodo la sua gloria diminuisce? No di certo! Che bisogno c’è di santificare il nome, di pregare perché il regno venga, perché sia fatta la volontà? Tutte queste cose sono già state realizzate in Gesù Cristo! Noi non aumentiamo e non diminuiamo proprio niente della gloria di Dio! Ma Dio ci vuole unire alla sua causa. Ed ecco allora che nelle seconde tre domande, che rappresentano la nostra causa, dove la prima persona plurale è ancora più evidente (noi, nostro….), ci comanda addirittura di usare l’imperativo: dacci, rimetti, liberaci! A me questa cosa sconvolge. Ma chi sono io, fragile e debole creatura, piena di miseria e di peccato, che oso rivolgermi a Dio con l’imperativo? È possibile farlo perché fin dall’inizio Dio ci ha voluti come suoi, passatemi il termine, “collaboratori”. Dio vuole occuparsi di noi, sue creature, ma ci chiede, ci comanda di occuparsi della sua causa. Ecco perché dobbiamo chiedere. Ecco perché non dobbiamo temere devozionismi o superstizioni. Posso anzi devo osare di rivolgermi a Dio con l’imperativo nella libertà di figlio e figlia del Padre, come fratello e sorella di Gesù perché è Dio che lo vuole e per me è un bisogno. Sì, cari fratelli e e care sorelle, pregare per noi è un bisogno. È come respirare, è come mangiare. E Dio lo sa. Per questo quando preghiamo è felice. Ecco, dopo, nella nostra preghiera comunitaria, proviamo a pensare che noi preghiamo perché Dio è contento se lo facciamo. Ma la preghiera non è comunque un dono a Dio ma un dono che Dio fa a noi per soddisfare un nostro bisogno. Noi abbiamo bisogno di pregare, ma non sappiamo farlo. Ecco però che lo Spirito viene in nostro soccorso. E’ proprio quando preghiamo, se preghiamo veramente, che mostriamo a Dio la nostra fragilità ed è solo così che il Padre può venire in nostro soccorso. Apro una parentesi. Dio non è maschio. L’essere umano, creato a immagine di Dio, è maschio e femmina. Nella Bibbia però Dio viene chiamato Padre. Tante volte ci chiediamo se non possa essere corretto anche chiamarlo Madre. La Bibbia non lo fa, sicuramente per prendere le distanze dai culti pagani della Madre Terra. Personalmente, se non lo fa la Bibbia, non mi sento autorizzata a farlo. Ma le immagini di Dio che la Bibbia offre sono immagini anche di amore materno. In un suo testo Fulvio Ferrario afferma che quando diciamo Padre, se non vogliamo dire anche Madre, possiamo però pensare a un “Padre materno”. Ecco anche questo ci insegna il Padre Nostro. Prima di concludere permettetemi un’ ultima osservazione. Ma perché il racconto della Creazione come lettura di accompagnamento? Che c’ entra con il Padre Nostro? Un attimo fa ho accennato al “Padre materno”. Ecco uno dei motivi per i quali ho voluto richiamare la Creazione dell’uomo e della donna. Ma ce ne sono altri due. Predicazione di Mara Venturi – Domenica 24 Agosto 2025 Chiesa Evangelica Valdese di Firenze
Domenica 15 Giugno
Letture 1 Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Isaia 40,1-2
1 Gesù, vedendo le folle, salì sul monte e si mise a sedere. I suoi discepoli si accostarono a lui, 2 ed egli, aperta la bocca, insegnava loro dicendo: 3 Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, II Corinzi 1,3-7
Care sorelle e care fratelli, L’inizio del passo è un invito ai Colossesi a “dire bene” di Dio, questo il significato letterale di “Sia benedetto”. Questi due aspetti li possiamo sintetizzare con duedomande rivolte a ciascuna/o di noi. Cara sorella e caro fratello ciascuno di noi dovrebbe porsi la domanda: ho bisogno di consolazione ? Mi sento consolata/o? Questo atteggiamento dobbiamo assumerlo anche come comunità. Siamo turbati per tante sorelle e tanti fratelli che sono tornati al Padre negli ultimi anni lasciando un vuoto, Paolo però ci rassicura che come siamo partecipi delle sofferenze lo siamo anche della consolazione. Il libro di Giobbe ci offre un grande esempio: i suoi amici non lo sanno consolare dalle sue afflizioni e dal profondo del suo dolore lui li apostrofa con queste parole: L’incapacità di condividere le sofferenze e porgere consolazione a chi soffre priva noi stessi, come singoli e come comunità, della consolazione che proviene da Dio. E’ nell’attraversamento comune della sofferenza, nella comunione del pianto, quando sentiamo che il nostro dolore è profondamente condiviso dagli altri e viceversa, Paolo scrive «come abbondano in noi le sofferenze di Cristo, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione.» (v.5). Il Signore sia benedetto! Amen Culto chiesa valdese di Firenze Domenica 15 Giugno 2025 - Predicazione di Valdo Pasqui
Domenica 26 Gennaio 2026
Letture II Re 5, 9-15 9 Naaman dunque venne con i suoi cavalli e i suoi carri, e si fermò alla porta della casa di Eliseo. Romani 1,13-17 13 Non voglio che ignoriate, fratelli, che molte volte mi sono proposto di recarmi da voi (ma finora ne sono stato impedito)
5 Giunse dunque a una città della Samaria, chiamata Sicar, vicina al podere che Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe;
Cara sorella e caro fratello, Nella sua interezza il racconto è molto articolato e dettagliato, si apre mostrandoci Gesù in cammino per adempiere alla sua missione di conversione e guarigione che si è svolta proprio come un percorso senza sosta, dalla mangiatoia alla croce per poi concludersi con lo sconvolgente evento, della resurrezione (la tomba vuota e le apparizioni). Siamo intorno a mezzogiorno, Gesù è stanco, i discepoli sono andati in cerca di cibo, e lui si siede vicino ad una fonte posta nel podere donato da Giacobbe a Giuseppe e chiede da bere a una donna. Questo apparente e improvviso scarto tra la dimensione umana e quella divina non ci deve meravigliare perché le interpretazioni teologiche dell’Evangelo di Giovanni pongono in evidenza come l’evangelista mostri che in ogni singolo avvenimento della “vita” di Gesù incarnato è già all’opera il Cristo presente nella chiesa. La rivelazione di Dio nella vita di Gesù, la “Parola fatta carne”, è il culmine di ogni rivelazione divina e in questa rivelazione, conclusa nella vita terrena di Gesù, si concentra l’intero processo di salvezza dell’umanità da parte di Dio. Qui si trova l’apice di ogni processo di salvezza, che si è svolto prima di questa incarnazione e che, dopo la vita terrena di Gesù, si svilupperà nella sua comunità (O. Cullmann)secondo una visione che stabilisce una continuità fino dalla creazione, preesistente nella storia di Israele e che prosegue con l’azione del Cristo glorificato nella Chiesa (B. Corsani). Tuttavia, questa mattina, siamo invitati a riflettere (solo) sulla prima parte del racconto la quale ci offre un concentrato di spunti di riflessione che da un lato lascia imbarazzati nella scelta e dall’altro ci stupisce per la genialità narrativa dell’evangelista. Come spesso mi accade, di fronte alla ricchezza di questi testi, anche questa volta mi sono posto la domanda: come trovare parole di senso compiuto che non sviliscano o, peggio, distorcano il significato originario rischiando di piegarlo alle nostre visioni contemporanee? Forse bisognerebbe tacere, limitarsi a ascoltare e meditare riscoprendo la potenza e l’efficacia dell’Evangelo sine glossa, cioè senza aggiunte che possano sminuirlo e alterarlo! Ma poiché non voglio sottrarmi al compito di commentare lo farò evidenziando tre elementi, il luogo, l’incontro, l’acqua che cercherò di ricondurre alla dimensione personale di ciascuna/o di noi. Gesù sta risalendo dalla Giudea per recarsi di nuovo in Galilea e così passa attraverso la Samaria e si ferma a Sicar, presso la fonte del podere dato da Giacobbe a suo figlio Giuseppe. Da secoli i rapporti tra i giudei e i samaritani erano compromessi. Intorno al 922 a.C., dopo la morte del re Salomone, le popolazioni del nord si erano separate dal regno di Giuda, posto al sud, dando vita ad un regno indipendente con capitale Samaria, instabile e contraddistinto da continui avvicendamenti sul trono e sommosse contro i re, fino alla distruzione ad opera dell’impero Assiro nel 722 a.C.. Oltre alle vicende politiche gli ebrei del vecchio regno del nord, i Samaritani, erano malvisti da parte di quelli del sud che li accusavano di non essere “abbastanza ebrei” per aver mescolato la fede ebraica facendo coesistere con la Torah anche il culto di divinità pagane dando luogo a un sincretismo incompatibile con la fede ebraica. Più avanti nel testo al Cap. 10 di Giovanni al v.16 Gesù, nel paragonarsi al buon pastore, dice di avere altre pecore e afferma che “vi sarà un solo gregge, un solo pastore”, ponendosi così nella prospettiva di realizzare l’antica profezia di Ezechiele (cap. 37, v. 21-22) "Ecco, io prenderò i figli d'Israele dalle nazioni dove sono andati, li radunerò da tutte le parti, e li ricondurrò nel loro paese; farò di loro una stessa nazione, nel paese, sui monti d'Israele; un solo re sarà re di tutti loro; non saranno più due nazioni, e non saranno più divisi in due regni”. Infattipoi l’evangelista ci dice che Gesù restò due giorni e che molti Samaritani “credettero a motivo della sua parola” (v. 42). b) L’incontro con la donna Ancora una volta Gesù rompe gli schemi rivolgendo la sua attenzione a una persona ai margini: samaritana, donna e con una storia personale non specchiata. Ma questa donna anonima viene toccata dalle parole di Gesù tanto da intuire che egli sia proprio il Cristo. E’ proprio a lei che la Parola incarnata riserva il privilegio di rivelare la propria identità di Messia: «Sono io, io che ti parlo!» (v.26). Che forza in questa duplice affermazione “Sono io” e “io che ti parlo” ! Apparentemente nel nostro testo l’acqua svolge il ruolo di innescare il dialogo tra Gesù e la donna, il pretesto a cui Gesù ricorre per attaccare discorso con questa sconosciuta ed è l’oggetto di un fraintendimento tra i due quando Gesù capovolge i ruoli offrendo lui dell’acqua alla donna che non capisce il significato profondo di questa offerta. Due sono gli aspetti che colpiscono. Per la donna l’acqua da attingere dal pozzo con il secchio è un compito faticoso di cui noi abituati ad avere l’acqua corrente che esce dai rubinetti casa abbiamo perso la cognizione della ripetitività stancante. Per rendercene conto basta pensare a quelle aree deserte o in via di desertificazione nel mondo (p.e. in Africa) dove donne e bambini sono costretti a percorre ogni giorno una lunga, assolata e polverosa strada per procurarsi l’acqua necessaria al fabbisogno domestico. Gesù capovolge la situazione e dice «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è che ti dice: "Dammi da bere", tu stessa gliene avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato dell'acqua viva» (v.10). E noi ? Cosa ci dicono questa immagine e questo ribaltamento di prospettiva? Cara sorella e caro fratello, come nel dialogo personale con questa donna Gesù fa emergere la sua condizione personale, così Egli viene incontro a ciascuna e ciascuno di noi,
Domenica 12 Gennaio 2025 «Ma dunque, sei tu re?» Letture:
Poiché, ecco, io creo nuovi cieli e una nuova terra; Isaia 65,17-19
grazia a voi e pace da colui che è, che era e che viene, Apocalisse 1,4b-8 testo per la predicazione: Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?» Gesù rispose: «Dici questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?» Giovanni 18, 33-37
Cari fratelli e care sorelle, le letture scelte per oggi ci indagano, ci interrogano e un po’ ci inquietano. Nel breve brano scelto per la predicazione, molti gli interrogativi che ci scrutano dentro. A Giovanni stanno a cuore il tema dell’incarnazione (nel prologo “la Parola si fa carne”), quindi il tema dell’inviato: Gesù, il figlio preesistente all’evento della sua nascita, è inviato dall’amore del Padre, il suo destino terreno si compie perché inviato. E si compie in un mondo in cui regnano le tenebre che solo la luce della Verità potrà illuminare ( E questa parola ci sta particolarmente a cuore: “Lux lucet in tenebris”). Quella di Giovanni quindi non è tanto un’escatologia che rimanda al mondo che verrà ma che si compie nell’incontro del Padre con il Figlio, sulla croce. Che assurdità! Regno, re, croce. Non stanno insieme. Non possono stare insieme. Caliamoci nella lettura. Pilato è colpito da questo strano personaggio. “Ma chi sei? Ma non hai paura di me?” Dirà poco dopo: “Posso farti vivere o morire, lo sai questo?”. E questo pazzo di Gesù non risponde o fa discorsi a dir poco assurdi fino a proclamarsi re. Un re parecchio strano. Che era entrato a Gerusalemme sul dorso di un puledro d’asina. Su un “ciuchino”, non su un cavallo. Che strano questo re. Un re che si lascia spogliare fino a farsi crocifiggere nudo. Nell’ arte lo si rappresenta sempre con una fascia ai fianchi, ma i Romani, veri professionisti nell’infliggere sofferenza fisica e psicologica, crocifiggevano nudi: con tutto ciò che quel tipo di morte comporta, la nudità diventava un ulteriore motivo di scherno. Che strano questo re. Accetta la sofferenza. E che sofferenza. Ora, nel corso dei tempi, questo concetto di sofferenza è stato stravolto. Permettetemi di raccontarv i un episodio che mi è capitato qualche tempo fa. Incontro una donna. Ci parliamo. Scatta una certa confidenza e complicità. Ci mettiamo a nudo raccontandoci reciproche sofferenze del passato. Scopro che è stata vittima di violenza domestica e ha addosso un notevole numero di punti di sutura. La cosa di per sé già basterebbe a crearmi sdegno, ma non finisce qui. Mi racconta di essersi recata da una persona per chiedere aiuto e questa, per tutta risposta, ha pensato di aiutarla portandola davanti al Crocifisso e dicendole “Guarda quanto ha sofferto Lui. Puoi e devi soffrire anche tu!”. Non voglio certo mettere in dubbio le buone intenzioni di quella persona, ma io credo che così il messaggio cristiano venga decisamente stravolto. Vi ricordate ormai una ventina di anni fa il film “The Passion”? Provocò reazioni contrastanti. Personalmente, a me non piacque affatt,o perché venne dedicato un tempo a mio avviso eccessivo alla flagellazione e alla sofferenza, con il rischio di far passare il messaggio che la salvezza dell’essere umano venga dalle sofferenze patite dal Cristo. E questo è aberrante. È quello che fa dire a una vittima di violenza domestica “soffri in silenzio”. No! Non è questo il messaggio cristiano. La salvezza non viene dalla sofferenza, non viene dalla morte in sé ma viene dall’amore con cui Dio ha accettato di morire al mio posto. Eccolo il messaggio. Gesù non è stato il primo né l’ultimo condannato a morte innocente. Quanti innocenti continuano a morire ogni giorno! Penso ai bambini israeliani e palestinesi. Non sono forse innocenti condannati a morte? Penso ai bambini russi e ucraini. Penso alle donne uccise dalla cieca violenza maschile. Penso alle vittime di violenza domestica e di violenza sessuale, penso alla pedofilia … le vittime non muoiono, forse, nel senso stretto del termine, ma è una morte anche quella. E poi si potrebbe andare avanti con le condanne a morte nei paesi che si ritengono civili e dove spesso le condanne, già di per sé ingiuste, arrivano dopo un processo sommario. Tutti morti innocenti. Ma nessuno di loro muore per salvare me, muore al mio posto, muore per recarmi salvezza. E’ Dio stesso a farlo, è nella sua piena libertà che Dio decide di sottomettersi, decide, anche se libero, di rinunciare alla sua libertà o, meglio, usare la sua libertà per diventare il servo innocente, il servo obbediente, sottomettersi per primo e per recarmi salvezza. Che strana questa idea di libertà e di sottomissione. Eppure è la realtà cristiana: siamo davvero liberi se usiamo la libertà per servire e per servire Dio. Lutero stesso, in apertura del testo “Libertà del cristiano” dice chiaramente che il cristiano è, sì, libero signore sopra ogni cosa ma anche servo volenteroso sottomesso a ciascuno. E, come ci ricorda anche Giovanni, poco più avanti del brano che abbiamo letto, quando ci racconta la morte in croce, Dio stesso, in Cristo e sulla croce, si sottomette per primo e lo fa affinché la croce diventi per l’essere umano porta di accesso alla salvezza. Che strano però questo re, e che strano questo regno. Un regno che non è di questo mondo. Un regno che trova la sua realizzazione solo nell’incontro misterioso del Padre e del Figlio, che Gesù stesso dice essere una cosa sola, sulla croce. Quel Figlio apparentemente abbandonato ma che avrà la forza di dire “È compiuto!”. E’ compiuto cosa? La sua missione. L’inviato dall’ amore del Padre ha una missione da compiere e la compie in tre momenti:
“E’ compiuto”. Con queste parole ho annunciato la morte di mio padre al ministro che si sarebbe occupato del funerale. Lui ha apprezzato. Altri hanno pensato che fossi megalomane. E invece non siamo megalomani se proviamo a ricondurre la nostra morte a quella di Cristo. Ma non certo perché la nostra morte o la nostra sofferenza possa essere minimamente paragonata a quella di Gesù, ma perché è la nostra fede che ce lo chiede. A me piace molto definire la fede (ammesso che si possa definire…) non tanto come il nostro sì a Dio ma come il nostro amen al sì di Gesù Cristo. Se il Cristo non avesse detto quel sì (che gli è costato, gli è costato un prezzo elevatissimo), se non avesse accettato la pazzia della morte di croce, saremmo ancora immersi nelle tenebre e senza via d’uscita. Dire amen al sì di Gesù Cristo, cioè rimettersi completamente in Lui, gettarsi nel suo amore folle che accetta la morte più ignominiosa che ci potesse essere, lasciare agire Dio in noi, lasciarci modellare per vivere in un mondo, che non è forse il suo regno, ma è il mondo nel quale ha deciso di vivere, in cui continua a vivere da Risorto, in cui ci chiede di seguirlo, di sottometterci sì, ma in libertà, perché Dio stesso lo ha fatto per primo. Pilato, più per compiacere la folla che per altro, fece mettere quel cartello sulla croce: “Il re dei Giudei” e così facendo sarebbe dovuto essere un ulteriore motivo di scherno. Come la veste rossa e la corona di spine. E invece, così facendo, quel Dio incredibile, quel Dio che sa prendere le nostre miserie e trasformarle, quel Dio che tutto può, ha mostrato una grande verità: eccolo il vostro re, sì è sulla croce, è re sì, ma re di riconciliazione e di perdono. Perché è con la sua morte, offerta liberamente e per amore, che ci ha riconciliati. Solo credendo in Lui possiamo, per grazia, essere salvati. Una mia amica ha un quadro dove è rappresentato Gesù che porta la croce. La prima volta che lo vidi mi colpì per un particolare: aveva la veste rossa addosso. Con una certa arroganza, devo ammetterlo, scossi la testa dicendo: “Ma questo pittore l’ha letto il Vangelo? Ma non lo sa che la veste rossa gli viene poi tolta?” Ma che presunzione assurda la mia! Ok, il quadro non sarà coerente con la lettura del Vangelo ma solo ora mi rendo conto che l’autore forse voleva comunicare qualcosa: quel Gesù è e rimane RE! Anche se nudo. E mi spingo oltre. Nelle nostre chiese riformate abbiamo tolto, e aggiungo – giustamente - il Crocifisso. E conosciamo i motivi. Non solo o non tanto per l’osservanza al secondo comandamento ma, e questo è a mio avviso il motivo principale, perché Cristo è il Vivente in mezzo a noi. Tutto vero. Io però sono convinta che già nel Crocifisso sia presente il Risorto. Quel Re di riconciliazione e perdono che passa dal venerdì santo per arrivare alla Pasqua e poi alla Pentecoste. Un unico mistero. Che non possiamo separare. Dov’è allora il Regno? Dov’è ora il Re? Il Regno è già qui perché il Re-Crocifisso ma Vivente è in mezzo a noi. E’ un Re che ha lasciato il suo trono per vivere nelle miserie umane, nelle tenebre umane per portarci la luce. Luce che, pur se offuscata dal peccato, continua a essere in noi, risplende ogni qual volta viene osservata la volontà del Padre. “Lux lucet in tenebris”, e luce che non potrà mai spengersi. Nessuna guerra, nessuna violenza, nessun omicidio potrà mai spengerla. E noi lo crediamo. Vano, altrimenti, sarebbe stato l’estremo sacrificio di Gesù-Dio che “sapendo che era venuta per lui l’ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1). Amen
Predicazione di Mara Venturi - Chiesa Evangelica Valdese di Firenze Domenica 12 Gennaio 2025 |
![]() Ultimo aggiornamento: 25 Agosto 2025 ©Chiesa Evangelica Valdese di Firenze |