Apertura

Gioia del cuore, fonte di misericordia,
stringi tra le braccia i tuoi servi.
Come la cerva agogna l’acqua,
così vorrei stare davanti a Te.

In questo giorno il mondo è stato concepito,
concepito ma non ancora partorito,
aspetta, crescendo nel liquido, nell’oscurità,
così è ciascuno di noi, pensiero ed azione
che si prepara per esser dato...

Rosh Hashanà è la nostra finestra,
dietro i vetri se ci siamo finora nascosti al mondo,
non possiamo più nasconderci.
In questo giorno dobbiamo aprire le finestre
ed esporci con la candela in mano
della nostra anima, per imparare
dove siamo arrivati e cosa possiamo diventare.

Potete immaginare un mondo senza colori,
senza la grazia del blu, senza la vita del verde?

Ringraziamo di avere occhi per vedere
il dono sublime della bellezza.

Potete immaginare un mondo senza suoni,
che non ha mai conosciuto la gioia del canto?

Ringraziamo per le parole che esprime la nostra
mente, per gli inni di gioia e i canti del dolore,
e di avere anime che sanno ascoltare.

Potete immaginare un mondo senza leggi,
dove lo scorrere delle maree o il fluire del tempo
non può essere contato ?

Ringraziamo per l’ordine meraviglioso che governa
la polvere e le stelle, e perfino i battiti del nostro cuore.

Potete immaginare un mondo senza amore,
dove lo spirito è rinchiuso nella prigione di se stesso?

Ringraziamo per lo spirito, a somiglianza di Dio,
che fra noi chiamiamo amore,
che lega vita a vita, cuore a cuore.

dalla Liturgia di Capodanno ebraica (Rosh Hashanà)

 


Un cuore di pace

di Raffaele Volpe

(meditazione su 2 Sam.22)

 

Fra qualche giorno inizia un nuovo anno.  Ed ognuno di noi, affacciato alla finestra del vecchio anno, scruta con curiosità, con apprensione e con qualche buono auspicio l’anno che viene.  Siamo così simili al Goethe dipinto da Tischbein affacciato alla finestra del suo appartamento romano: lo straniero assetato di novità che guarda il mondo nuovo dalla finestrina della sua stanza spoglia.

La stanza raffigura la nostra esistenza, che è sempre spoglia; il mondo nuovo, che si vede dalla finestra, è il nuovo anno sempre carico di attese; noi rappresentiamo lo straniero, sempre alla ricerca della nostra identità, del senso della nostra esistenza, e sempre assetati, sempre in viaggio.

Eccoci nell’intercapedine di due anni, il vecchio e il nuovo; eccoci allo scadere di un tempo e all’inizio di un nuovo tempo.  Eccoci qui, mentre ci poniamo una domanda: cosa deve fare un credente alla fine e all’inizio di un nuovo anno?

La preghiera di Davide, poco prima di morire, quindi allo scadere non di un tempo, ma di tutto il suo tempo; la preghiera di Davide, mentre chiude la finestra della sua vita; la preghiera di Davide, mentre lascia a suo figlio Salomone il greve e piacevole compito di essere il servo di Dio; la preghiera di Davide ci soccorre, ci aiuta a rispondere alla nostra domanda: cosa deve fare un credente alla fine e all’inizio di un nuovo anno?

Ed ecco la risposta: deve benedire il Signore!  “Davide benedisse il Signore in presenza di tutta l’assemblea e disse: ‘Sii benedetto, Signore, Dio del padre nostro Israele, di eternità in eternità’”.  Ecco cosa le nostre labbra possono sussurrare alla fine e all’inizio di un nuovo anno: sii benedetto, Signore, Dio del nostro Salvatore Gesù Cristo, di eternità in eternità. 

Quando Davide disse queste parole, il popolo di Israele si

inchinò e si prostrò davanti al Signore.  Sì, forse non bastano le parole per benedire il Signore, forse c’è il bisogno anche di compiere dei gesti.  Certo noi protestanti siamo molto discreti, non amiamo molto la gestualità, specialmente quella troppo ostentata.   Ed è un bene, se non diventa una scusa per non far nulla.  Tra i gesti ostentati e il nulla, c’è tutta una varietà di possibilità.  Io vi  propongo una possibilità: quando torniamo a casa, chiudiamoci in una stanza, lontani dalla vista degli altri, mettiamoci in ginocchio e benediciamo il Signore!

Cosa deve fare un credente alla fine e all’inizio di un nuovo anno?  Deve benedire il Signore, ringraziarlo.  Ma il popolo di Israele non si limitò alla benedizione: esso fece volenterosamente delle offerte a Dio.  Offrì a Dio qualcosa spontaneamente.  Diede a Dio qualcosa, senza esserne obbligato, lo fece volontariamente, liberamente, gioiosamente.  All’inizio di un nuovo anno possiamo prenderci del tempo e pensare cosa possiamo offrire a Dio.  Cosa vogliamo offrire a Dio. 

Nessuno ci dovrà dire: offri questo o quello.  Non vogliamo offrire perché obbligati, vogliamo dare a Dio qualcosa liberamente.  Quando saremo in ginocchio nella nostra stanza per benedirlo, in quel momento pensiamo cosa vogliamo volenterosamente offrirgli.

Che cosa deve fare un credente?  Il popolo di Israele si impegnò a costruire il tempio.  Possiamo anche noi darci lo stesso obbiettivo: costruire il tempio.  Ma quale tempio: innanzitutto il tempio dentro di noi.  E poi il tempio fuori di noi: le nostre relazioni, le nostre comunità, i muri delle nostre chiese.

Che cosa deve fare un credente alla fine e all’inizio di un nuovo anno?  Deve benedire, offrire e costruire.  Ma perché deve farlo?  E’ una domanda così importante che non voglio subito rispondere.  Risponderò prima ad un’altra domanda: chi è colui che deve fare tutte queste cose?

La preghiera di Davide più volte si chiede: chi sono io, chi è il mio popolo, chi siamo noi che possiamo fare tutte queste cose?  E’ una domanda molto seria: chi sono io che deve fare queste cose?  E’ una domanda in cui implicitamente emerge molta umiltà.  Il credente non è mai uno spaccamontagne, un vanaglorioso, uno sbruffone.  Il credente è consapevole di che pasta è fatto.  Quando incontrate quei credenti che si riempiono la bocca di quel che fanno e di quel che dicono, aiutateli nell’imparare l’umiltà, la modestia, la piccolezza.  Aiutateli con le parole di Davide: chi sono io?, si chiede, e risponde: uno straniero, un ospite di passaggio, uno che vive i suoi giorni come l’ombra, senza mai giungere a niente.

Che capolavoro questa risposta!  Che consapevolezza della propria piccolezza.  E badate bene, Davide non lo fa per disfattismo, per nascondersi dietro questa coscienza esistenziale e non far niente.  Anzi, Davide, dopo aver confessato questa sua condizione, appare persino più attivo di prima, più determinato.

Siamo stranieri su questa terra.  Siamo ospiti passeggeri.  I nostri giorni sono come l’ombra.  Il 2005 sarebbe un anno favoloso se riuscissimo a ricordarci questa semplice verità.  Chi siamo noi?  Ecco cosa siamo!

Ed ora siamo pronti per rispondere alla domanda più importante: perché, noi che siamo stranieri, ospiti passeggeri, ombre che svaniscono; perché noi dobbiamo benedire, offrire e costruire?  Cosa possiamo costruire noi che siamo come l’ombra?  Cosa possiamo offrire noi che siamo ospiti passeggeri? Come possiamo benedire se siamo stranieri?

Ed ecco la risposta: noi possiamo benedire, offrire e costruire perché Dio per primo benedice, offre e costruisce.  Dio per primo ci ha benedetti.  Dio per primo ci ha offerto la vita.  Dio per primo ha costruito per noi qualcosa.

Nella sua preghiera Davide dice: dalla tua mano noi diamo a te.  Questa è una espressione meravigliosa: noi diamo a Dio qualcosa prendendola dalla sua mano.  Non dalla nostra, dalla sua mano.  E la mano di Dio è la mano di Cristo: una mano generosa, bucata, forata dai chiodi della croce, perché dai buchi della sua mano possano passare le sue benedizioni.  Certo che possiamo noi stranieri benedire Dio!, ma dobbiamo attendere che dalla sua mano venga la sua benedizione.

Davide nella sua preghiera dice che Dio conosce i nostri cuori, che conserva in eterno i nostri sentimenti e i nostri propositi, e

che fa sì che il nostro cuore sia rivolto a lui.  Dio qui è come un cardiologo che cura i nostri cuori –e quante ferite hanno i nostri cuori!-.  Ripara questo muscolo ferito e ci dona un cuore di pace.  Sì, è proprio questa l’espressione che Davide usa: un cuore di pace, cioè un cuore integro.  Perché la pace abita dove è mantenuta l’integrità della persona,  della sua dignità, della giustizia e del diritto dei più deboli.  Ed ecco perché noi, che siamo degli ospiti passeggeri, possiamo offrire a Dio qualcosa: perché Dio ci ha donato il cuore di Cristo.

Davide nella sua preghiera dice che Dio ci fortifica e ci fa grandi.  E cosa farebbe un’ombra senza un Dio che la fortificasse e la facesse grande?   Ma quand’è che l’essere umano capirà che ha bisogno di Dio?  Quando capirà che senza Dio non potrebbe nemmeno sopravvivere un solo secondo?  E’ Dio che ci fortifica e ci fa grandi, ed è per questo che un’ombra come me o come te può costruire qualcosa.  E’ Dio che ci fortifica e ci fa grandi in colui che era ricco e si fece povero, in colui che era forte e si fece debole, in colui che era immortale e si fece mortale.  Dio ci fortifica e ci fa grandi in Cristo Gesù.

Cosa fare alla fine e all’inizio di un anno?  La preghiera di Davide ci chiede di benedire, offrire e costruire.  Ma ci dice anche che noi che siamo stranieri, ospiti passeggeri e ombre che svaniscono, abbiamo bisogno di Dio, delle sue benedizioni, dei suoi doni, e del suo potere di costruire e ricostruire le nostre esistenze. Il 2005 sarà un anno speciale se sapremo ancora una volta scegliere quel Dio che in Cristo ci ha scelti e ci amati eternamente. Amen

 


Storici di fine Novecento

 

INTERVISTA A GIORGIO SPINI, FIRENZE, 15 MAGGIO 2004.

 

La fase costituente della Società degli storici italiani si situa tra il 1962 e il 1963; quali furono a suo parere le ragioni della sua nascita?

 

Siamo al 1962, perciò nel tempo del primo centrosinistra, in un’atmosfera caratterizzata dalla speranza che fossero possibili delle reali modifiche. A quest’atmosfera di speranza contribuirono colleghi di varie materie e facoltà, spesso con in comune un’esperienza americana, perché chi di noi aveva insegnato o studiato negli Stati Uniti - Sylos Labini per esempio ne era un veterano - aveva visto il funzionamento di un’università diversa da quella italiana e quindi era tornato con le stesse intenzioni. Lo stesso valeva per chi aveva avuto un’esperienza in Inghilterra.

 

Cosa la colpì dell’università e della società americane?

 

Io sono capitato a Berkeley nel ’65, cioè in quello che fu il nostro ’68, quindi ho visto “the Movement” nel pieno. La vita era un po’ difficile! Questa California era sfrenata, ogni tanto c’era una studentessa ammazzata di notte, gli omosessuali sfilavano: io rimanevo un po’ sconcertato. Se avessi potuto scegliere la terra del mio esilio sarebbe stata il Wisconsin, lì ho lasciato il cuore. Avevo vissuto un atmosfera di apertura al nuovo, dove un’idea che vale trova sempre qualcuno che la finanzia. Una volta andai a Rochester, nello Stato di New York; lì c’era un’università notoriamente finanziata da un gruppo capitalistico. Al dipartimento di storia trovai un valentissimo collega, noto per essere il numero uno dei marxisti americani. Domandai come mai erano finanziati e lui mi rispose che lì se ne infischiavano delle idee personali, chi era bravo veniva pagato.

 

Quali intenzioni comuni legavano gli storici influenzati dal modello anglosassone, e più in generale i membri della Società degli storici italiani?

 

Per esempio un’aspirazione comune - che aveva a che fare con la storia ma non solo - era quella di abolire le facoltà e di sostituirle con i dipartimenti, perché le facoltà come centri di studio erano nulla. In una facoltà di Lettere convivevano lo studioso di glottologia con il medievista: non avevano nulla in comune, non poteva essere un centro di studio. Si pensava al dipartimento di tipo angloamericano come centro di studio in cui finalmente la storia avesse un posto, mentre nella facoltà non lo aveva, era dispersa. Il gruppo delle discipline storiche era diviso tra Lettere, Magistero, Scienze economiche, Scienze politiche, persino Medicina, dove si insegnava storia della medicina. Quindi in 5 facoltà diverse, in nessuna delle quali aveva un ubi consistam. Di qui la richiesta dell’abolizione delle facoltà e l’avvento del dipartimento. Se non sbaglio poi la soluzione è stata trovata con un rimedio tipicamente italiano: lasciare le facoltà e istituire anche i dipartimenti.

 

In effetti la Società degli storici italiani, abbandonata presto l’idea di perorare la causa di una Facoltà di scienze storiche che qualcuno aveva ipotizzato, sostenne unanimemente la prospettiva dipartimentale di matrice anglosassone quale strumento efficace di raccordo tra gli storici. Tuttavia non esaurì le sue energie solo su questo punto.

 

Oltre a questo c’era il clima di attesa di una svolta di centrosinistra che portasse non solo nell’università, ma un po’ in tutte le strutture italiane, un vento di modernità, uno scioglimento delle vecchie catene di autoritarismo borbonico che erano tipiche della situazione italiana. In quel tempo mio figlio maggiore, Valdo, era stato eletto deputato e c’era in casa una continua conversazione riformistica. Come sa, queste istanze di americanizzazione, non è esatto, diciamo di modernizzazione, cozzarono contro una specie di “muro di gomma”, per cui non se ne fece nulla. Nelle nostre ardenti illusioni pensavamo ad un ringiovanimento di cui la risistemazione delle scienze storiche era una parte, non era il tutto, anche se vi erano degli aspetti significativi. Oltre ad avere finalmente un dipartimento di storia in cui gli studi storici avessero un ubi consistam, invece di essere sparpagliati di qua e di là, vi era il problema della Giunta centrale degli studi storici e degli Istituti storici nazionali, che erano ancora sotto la legislazione del regime fascista, quindi interamente di nomina governativa. Tutto era rimasto tale e quale; nel ’62 il fascismo era caduto da un po’ di tempo, ma queste leggi resistevano tranquillamente. L’idea era che questo sistema, tutto basato su nomine dall’alto, governative, finisse per trasformare queste istituzioni da strumenti di progresso scientifico in strumenti di clientela politica. Non c’era mai un presidente dell’Istituto per la storia moderna e contemporanea - per fare un esempio - che non fosse sulla linea governativa. Ne è stato presidente a lungo il senatore Ciasca, un senatore Dc i cui crediti scientifici erano diciamo modesti, però era un senatore Dc.

 

Giunta e Istituti nazionali, dunque, apparivano ai vostri occhi come luoghi di una continuità con l’esperienza fascista cui sostituire un meccanismo di reale controllo da parte degli specialisti?

 

Come sempre in Italia non si prende mai di petto un problema, lo si aggira, e quindi era rimasta tutta la vecchia struttura. Però mentre Gioacchino Volpe era profondamente un uomo del regime, il povero senatore Ciasca rappresentava un posticino dato per accontentare un vecchio cattolico. C’era un meccanismo perverso. Di più in più questi enti sono rimasti senza quattrini, senza una funzione precisa, senza prestigio internazionale. Sono diventati nient’altro che posticini in cui collocare clienti. Allora l’obiettivo era questo: abolire strutture che avevano carattere puramente clientelare e meccanismi di nomina autoritari per cercare di trasformarli in organi per così dire parlamentari. Non erano problemi esclusivi degli storici: allora

vi era una struttura autoritaria che dava tutto il potere ai cosiddetti “baroni della cattedra”, i quali avevano possibilità larghissima di pressione, per non dire ricatto, su chi volesse far carriera. Allora si ambiva a sbloccare queste situazioni clientelari e - ma questi erano veramente sogni - a introdurre quel tanto di etica professionale che indubbiamente c’è nelle università americane.

 

Perché ritiene che il mondo anglosassone avesse una deontologia professionale così diversa da quella italiana?

 

Non rispondo perché io sono di quella razza, non può chiederlo a me! Il clima del paese è tutt’altro.

 

Tra il ’62 e il ’63, come dicevamo prima, il progetto di creare un’associazione nazionale di storici di diverse età e metodologie prese corpo. La stesura di una bozza di Statuto fu affidata ad un comitato di undici membri dalla composizione alquanto eterogenea.

 

Roberto Andreotti era un antichista, un uomo molto fuori dai giochetti, un uomo superiore, limpido, non molto appassionato, però di alta qualità morale e competenza. Luigi Firpo aveva dei peccati sulla coscienza, perché era stato fascista. Tuttavia era un grossissimo studioso e possedeva una probità scientifica che lo portava a superare quelle sciocchezze giovanili. Ogni tanto aveva qualche ricadutina, come la sciocca idea di farsi eleggere deputato. Dal punto di vista scientifico era il migliore dei migliori, non c’era nessuno di storia delle dottrine politiche che avesse la forza di Firpo. Insomma, anche partendo con dei peccati addosso, la sua lucida coscienza scientifica lo portò a pensare che così non si potesse andare avanti, che in quel modo la scienza sarebbe andata a carte quarantotto. Pur non essendo politicamente rivoluzionario è stato magnifico, aveva un istintivo disprezzo per i camorristelli da quattro soldi, un disprezzo quasi fisico. Franco Valsecchi era di destra, ma anche lui era nella Società degli storici italiani per serietà professionale. Alberto Maria Ghisalberti era un’intelligenza corta, era stato un servo del padrone, di quella bestia di De Vecchi di Val Cismon. Era della componente combattentistica, era stato immesso nel regime per questa via. De Vecchi aveva le mani sporche di sangue, Ghisalberti poverino no, soltanto che lo aveva seguito. Era modesto, però aveva un senso professionale acuto, quello sì. Raffaello Morghen era un cattolico bonaiutiano, quindi sapeva cosa volesse dire libertà di ricerca scientifica; da questo punto di vista era un uomo rispettabilissimo, con una grande sensibilità spirituale. Rosario Romeo non ha bisogno di commenti. Alcuni membri della Società - Valiani, Venturi o Spini - ci mettevano un asso di bastoni politico; altri invece la professionalità, il rifiuto di una situazione per la quale davamo colpa alla gazzarra democristiana. Anche Lucio Gambi era un ex giellista combattente, azionista, da ragazzo aveva fatto a fucilate in Romagna. Era professore di geografia e fautore di una concezione non positivistica della geografia: per lui la geografia era una materia storica e umana, non una materia scientifica perché, diceva, anche la natura si modifica con la storia. Giuseppe Martini non era stato un combattente come Spini, Venturi o Chabod. Era un antifascista del Partito d’azione, ma non aveva il passato militare che avevamo avuto noi e che è un’esperienza seria per uno storico. Una cosa è leggere un libro, un’altra è vedere coi propri occhi. Martini, pur essendo un mite, un uomo molto dolce di carattere, era azionista come mentalità, aveva un indirizzo liberalsocialista, laico, rinnovatore. Ma non era possibile niente: la Dc era un gigantesco muro di gomma, ci battevi la testa contro e non serviva a nulla. Rumor, Colombo, Gui… Pensi che io feci il concorso per insegnare al liceo nel 1938 e fui primo in graduatoria seguito da Gui.

 

A distanza di anni imputerebbe ancora le stesse responsabilità alla classe dirigente democristiana per il fallimento dei vostri propositi riformatori?

 

Oggi non potrei che essere della stessa opinione. Perché col pretesto dell’anticomunismo è passato di tutto in Italia. La giustificazione era sempre la stessa: se no vengono i comunisti.

 

 

Eppure i comunisti nella Società degli storici non c’erano. Per essere più precisi alcune personalità importanti della storiografia comunista erano iscritte – Alatri, Bianchi Bandinelli, Manacorda, Procacci, per fare solo alcuni nomi -; Ragionieri seguì la fase costituente della Società dandone notizia su “Studi Storici” ma non vi fu mai un impegno diretto.

 

Non c’erano perché a loro allora non interessava. Puntavano sul “peggio la va, meglio che è”, in sostanza puntavano a una prospettiva rivoluzionaria e questa era una prospettiva riformistica.

 

La Società degli storici italiani inoltrò le sue richieste direttamente al ministero della Pubblica Istruzione e prese contatto con alcuni parlamentari di governo e opposizione. Ricorda quali fossero i vostri punti di riferimento?

 

Tristano Codignola in primissima linea. Aveva una testa come nessuno in termini di visioni di riforma scolastica. Era il numero uno, pochi avevano il suo stesso vigore anche teoretico, perché lui era figlio di un grosso pedagogista, non veniva dal nulla, era dirigente della casa editrice simbolo dell’antifascismo, La Nuova Italia. Codignola era legato a filo doppio a Riccardo Lombardi, un uomo di genio affascinantissimo. Nessun politico ha esercitato su di me il fascino di Lombardi. Però la sua formazione era prevalentemente di economia, non so quanta sensibilità avesse sul problema scolastico. Era tutto un gioco di collegamenti. Anche Brodolini non si occupava di scuola però era un serio riformatore. Tra i parlamentari Dc Ermini aveva a che fare con i problemi dell’istruzione, ma lo avrebbe dovuto sentir parlare.

 

Cosa ricorda del primo congresso nazionale organizzato dalla Società degli storici, quello che si svolse a Perugia nell’autunno del ’67?

 

Il clima era buono, la Società era ancora una cosa seria. Poi sa, io ero collegato al mondo di Giustizia e Libertà, anche personalmente. Mia moglie invitava a cena Valiani o Venturi, non Ermini! Era tutta una rete anche di rapporti affettuosi, sul piano personale.

 

Riprendendo il discorso iniziale sulla riforma degli “organismi coordinatori degli studi storici”, come li definivate, essa mirava a salvarli da una deriva del tutto clientelare. Quale era invece la situazione delle cattedre?

 

Le cattedre si giocavano tra baroni. Nella Giunta e negli Istituti era clientelismo politico; il governo - credo succeda anche adesso - nominava chi voleva. Gli attuali governanti sono troppo ignoranti per essersi accorti che esistono queste cose, quando apriranno gli occhi ci metteranno le mani sopra. La signora Moratti metterà un ingegnere alla storia antica perché sarà più efficiente! Il clima attuale passa i limiti dello sfacelo. Allora il sistema delle cattedre funzionava che solo noi ordinari votavamo la commissione, che veniva eletta sulla base del confronto tra una maggioranza e una minoranza. Nell’elezione per queste commissioni si riflettevano giochi di castelli baronali e di scuole, particolarmente sfrontati nelle facoltà dove correvano parecchi quattrini, come per esempio Medicina, Giursprudenza, le facoltà più legate alle professioni. A Lettere la sola cattedra dove possono correre veramente i milioni è storia dell’arte, perché una firma decide tra una crosta e un quadro di valore. A paleografia non si guadagnava molto. Le facoltà umanistiche avevano meno pasticci, meno do ut des brutali come altrove. Nelle facoltà umanistiche, o in quelle strettamente scientifiche, i giochi erano puliti.

 

Come avveniva l’elezione della commissione concorsuale?

 

Si teneva una riunione di boss elettorali, erano raggruppamenti di fatto. Per le cattedre di filosofia si raggruppavano laici e cattolici, era rituale, e nelle votazioni vincevano o questi o quelli. La votazione eleggeva una commissione di 5, 3 e 2 membri. Dal concorso usciva una terna di vincitori di cui il primo aveva diritto di andare in cattedra e gli altri potevano andare in cattedra se una facoltà li avesse chiamati. Perciò prima delle elezioni si tenevano delle riunioni informali, tra gruppi di professori di affine orientamento politico e ideologico. Come le dicevo a Filosofia era tipico lo scontro tra laici e cattolici; a Storia poteva avvenire allo stesso modo o essere più a sinistra, meno a sinistra. Poi ad un certo punto comparve la potenza elettorale del Pci e allora era un po’ difficile averci a che fare. Dalle votazioni usciva la commissione. A volte la minoranza cercava di avere qualcosa, a volte si ritirava sull’Aventino per lasciare alla maggioranza tutta l’infamia di fare delle porcherie. Tra baroni si fanno tante porcherie, ma poi si pagano. Però un minimo di professionalità ce l’avevano, almeno dove non correvano quattrini, come a Storia. Gli incaricati per carità non potevano votare! Il gioco era tutto tra venti, trenta persone. La commissione era nazionale e pur con tutti i suoi viziacci un minimo di professionalità c’era. Era un gioco tutto tra storici moderni, tra storici medievali, c’erano gli elenchi delle discipline che partecipavano ai concorsi. Anche io mi sono trovato a giocare il gioco del barone, e con un certo successo. Quello che viziava erano le affiliazioni politiche o ideologiche, molto ideologiche. C’è stata notoriamente un’età in cui nelle elezioni i gentiliani spadroneggiavano, poi c’è stata l’Università del Sacro Cuore che con Gemelli e compagni è stata un centro di potere da far paura. Storia moderna ha avuto delle fasi ideologiche: se guarda le cattedre dopo la guerra vedrà che sono quasi tutte di azionisti, Venturi, Giarrizzo, Galante Garrone, il povero piccolo Spini. Dopo la lotta fu tra azionisti e Università del Sacro Cuore, che aveva i suoi disseminati da tutte le parti. Poi spuntarono i comunisti, che in parte erano dei convertiti: il più grosso comunista di tutti era Cantimori, lui era un convertito da Gentile. Era diventato ufficialmente marxista però gli restava attaccato tanto di Gentile. Molti erano comunisti dal punto di vista organizzativo, ma spesso non dal punto di vista dell’ortodossia storico-materialista. Cantimori non aveva nulla di storico-materialista, aveva la tessera comunista, la militanza comunista, però rimaneva in lui una formazione di tipo spiritualistico. Si andava avanti così, in un gioco abbastanza ristretto tra ordinari della materia. Quindi l’intrusione governativa in questi posti della Giunta centrale e degli Istituti nazionali creava francamente risentimenti, perché con tutti i suoi vizi e peccatacci il gioco dei baroni si svolgeva pur sempre tra competenti, mentre lì interferivano fattori che con la competenza non avevano nulla a che fare. I più sfacciati erano i democristiani, a prendere l’ultimo cretino sonante e ballante e a mettertelo in cattedra. Era un gioco molto ristretto, però ristretto al mondo della cattedra, non ai cieli della politica; nonostante le pesanti interferenze ideologiche, su questo non c’è alcun dubbio.

 

Nonostante il “ gioco dei baroni” funzionasse ritenevate fosse venuto il tempo di una seria riforma dell’università.

 

Certo, perché la legislazione che reggeva l’università era sostanzialmente quella di Bottai, di De Vecchi di val Cismon: autentici analfabeti. I ministri fascisti erano bestie. Il modello a cui si ispirava la corrente di cui ero un militante era sostanzialmente quella angloamericana. I nostri padri, i più seri, i più avanzati, avevano guardato alla Germania di Weimar, lo stesso Nello Rosselli si era formato là. Noi la Germania ce la trovavamo fracassata, divisa in due, non poteva più avere quell’attrazione direi magica che aveva avuto sulle generazioni precedenti di storici e di filosofi.

 

L’università degli anni sessanta era popolata da diverse figure oltre ai “baroni della cattedra”: incaricati, liberi docenti, assistenti ordinari e volontari. Anche questi ruoli crebbero assieme al numero degli studenti, ponendo problemi di reclutamento, di sistemazione professionale, oltre che di gerarchie di potere.

 

E’ una questione che esigerebbe una riflessione seria, più che queste chiacchiere. Per quello che ricordo io il corpo dominante degli ordinari resistette finché poté all’idea dell’allargamento. L’università di massa non gli entrava proprio nella testolina, non gli entrava! E quindi era naturalmente considerata come uno svigliaccamento. Poi di tirar su una plebe di clientes, questo a un certo punto gli piacque, di avere molta gente da dominare, questo sì, purché rimanesse stretto il numero e clientelare il giro delle nomine. Certo dipendeva dalle università. Io sono stato otto anni a Messina ed era veramente una fogna. Quando i pagamenti avvenivano in denaro era una cosa pulita, mi spiego? Sono piovuto in una cosiddetta Facoltà di Magistero, composta da tre persone, tre. Uno era il preside, un filosofo spiritualista ammiratore di Gabriel Marcel. Quando arrivai lì gli dissi che ero entrato nel porto di Messina e avevo visto la statua della “Madonna della lettera”, perché avrebbe mandato per l’appunto una lettera ai messinesi. L’altissimo pilone con la statua recava la scritta “vos et ipsam civitatem benedicimus”. Il preside filosofo spiritualista disse che forse non era vero che la Madonna avesse mandato una lettera. Forse! Quando uno studente voleva la tesi, andava a bussare all’uscio dello spiritualista, ma non lo poteva trovare perché lui stava pensando. Lo riceveva la moglie, che era una donna grande, orribile, sporca, sciamannata, che gli spiegava quanto era difficile allevare una famiglia, perché costava tanto l’olio, il capretto; lo studente siciliano capiva, andava via e tornava con l’olio e il capretto. Allora era ammesso alla presenza del pensatore. Il numero 2 invece era prete, si chiamava don Luigi Illuminati, apparteneva alla diocesi abruzzese di Atri ed era professore di latino. Aveva il fisico delle caricature anticlericali del prete mascalzone: panzone, nasaccio bitorzoluto, guance rosse, grasso, laido, sporco e aveva come assistente, per tanto che era pagato, un altro pretaccio, questa volta calabrese, don Polimeno. Una volta ero sul ferry boat che mi riportava al continente e don Polimeno frugò nelle ampie tasche della sottana clericale per trovare il fazzoletto, ma sbagliò e tirò fuori la pistola. Perché era un prete ma era anche un mafioso, girava armato e non era vero che fosse assistente. Quest’altro prete era il provveditore di carne femminile per il padrone, quindi quando una povera ragazza prendeva un buon voto rimaneva molto imbarazzata. A Messina anche ultimamente hanno preso un altro per pasticci di questo genere, faceva preparare pranzetti agli studenti di dottorato, pare avesse anche richieste un po’ più energiche verso le candidate.

 

E il terzo ordinario?

 

Il terzo membro della Facoltà era comunista, naturalmente. Era stato prima nazista, filonazista, fascistone, conte Galvano della Volpe, bolognese, che quindi aveva un profondo disprezzo per questa canaglia meridionale. Il conte Galvano della Volpe era stato filonazista, aveva scritto un saggio sull’estetica del carro armato. Come è ovvio, il 25 aprile si era svegliato comunista ed era diventato una grande autorità perché era tra i migliori interpreti di Marx in Italia, autorevolissimo.

 

Quanti erano i docenti non ordinari e gli assistenti del Magistero messinese?

 

Una plebe che non finiva mai. Galvano della Volpe aveva un’assistente che era la figlia dell’albergatore dove stava. L’aveva nominata assistente e in compenso viveva gratis in albergo. Che comunista! Come a uno mancava un braccio a lui mancava completamente qualsiasi decenza. I pranzi che facevano alle spalle dei laureandi, fuori ad aspettare, questo gusto di mangiare, una cosa da rabbrividire.

 

Questo racconto fa pensare che esistesse una sorta di “identità baronale” assai più forte di quella politico-ideologica.

 

Sì, anche se non in tutte le facoltà c’era un simile triumvirato di mascalzoni. Però lì l’ho visto, lì c’era, si poteva arrivare fino a perversioni di questo genere. Fino alla vendita delle lauree!

 

La tanto auspicata riforma generale non c’è stata, eppure l’università è cambiata.

 

Non so quanto sia cambiata questa mentalità baronale arrogante e ricattatoria. Provi lei a dire: ha sbagliato, professore. Ma chi osa

dirlo! Forse io sono troppo pessimista ma ne ho viste veramente di tutti i colori.

 

Giuseppe Ricuperati ha parlato dei professori di ruolo con carica di parlamentare democristiano come di “una sorta di super-partito nel Parlamento”, ponendo la questione del rapporto tra potere politico e potere accademico In che modo operava quest’intreccio nell’Italia degli anni ’60?

 

Per esempio nei Magisteri, facoltà ben vista dalle monache. Allora le monache decidevano le preferenze delle liste democristiane e dunque tenersi buoni certi ordini di monache era importantissimo; dunque Magisteri all’impazzata! Non so perché un’altra specializzazione democristiana era creare conservatori musicali. Se lei guarda la carta dei conservatori musicali in Italia vedrà che ce ne sono moltissimi nel Veneto; pochissimi in Toscana; poi in Italia meridionale non le dico quanti sono! Ce n’è uno a Benevento, per esempio: si immagina gli studi musicali a Benevento!

 

Lei direbbe che la corporazione degli storici è stata la più impermeabile a forme di clientelismo?

 

Direi di sì, anche perché come sa sulla storia ha influito molto in passato il peso dell’idealismo gentiliano e crociano. Spesso era una lotta tra gentiliani e crociani e dunque c’è stato scarso posto per queste pesanti interferenze. Poi c’è stata una forte corrente comunista, marxista; in seguito si sono verificate anche fuoriuscite all’estrema sinistra, come nel caso di Guido Quazza. In storia moderna e contemporanea lo spazio occupato da democristiani è stato relativo, relativamente modesto se paragonato alla potenza politica.

 

Esclusa la prassi clientelare, come definirebbe un comportamento di stampo corporativo?

 

Al limite peggiore, nell’accezione deteriore, significa agire in modo fazioso e anteporre una giusta valutazione di capacità una valutazione personale, e certamente c’è stato. Personalmente, fino a che sono stato un povero ragazzo figlio di nessuno, ho avuto delle esperienze bellissime. Federico il Grande [Chabod] non osavo nemmeno pensare di conoscerlo, e invece è stato lui a propormi di fare il concorso per la scuola storica, è lui che mi ha scoperto. Le racconto un aneddoto personale. Era un accanito fumatore, lo minacciavano di morte se avesse continuato, quindi attraverso sforzi disperati riuscì a divezzarsi dal fumo. Poi ci fu la resistenza in Val d’Aosta. Si trovò a guidare il gruppo dei suoi combattenti in un terribile rastrellamento tedesco e riuscì a portarli in salvo dalla parte francese. Lì incontrò i maquis, e il capo dei maquis, vedendosi i disgraziati italiani affamati e stanchi, tirò fuori le sigarette e lui ne prese una. Da allora ricominciò a fumare e si ammalò di cancro. Quando era alla fine andai a visitarlo nella sua clinica e l’infermiera disse: “professore, c’è un suo collega”. Io con un groppo alla gola dissi: “no Federico, io non sono un tuo collega, sono sempre stato tuo figlio”. “Sì - disse lui moribondo - eri mio figlio, eri mio figlio”. Figli non ne aveva mai avuti, benché avesse una moglie che era uno splendore di bellezza, una svizzera bellissima di Losanna. Io sono stato scoperto da re Federico e ho avuto negli anni tante belle esperienze. Poi ho visto invece il gioco sfrenato delle camarille e francamente quello mi ha agghiacciato. Chabod era un dittatore, era un autoritario, era un pezzo d’omaccione terribile, fisicamente faceva paura, però era di un’integrità, di una leggendaria superiorità a tutte le piccolezze. Lo stesso dovrei dire, che so io, di Franco Venturi, di Sandro Galante Garrone. Era una generazione che veniva dalla lotta, dall’aver combattuto personalmente. Aver visto la morte è una scuola come nessun altra. Quando passi una notte sotto le sventole dei tedeschi le idee ti si fissano per tutto il resto della vita. E loro erano delle grossissime teste, ma anche uomini maturati attraverso quell’esperienza esistenziale, quelle scelte di fondo, o vivi o morti, il che li rendeva delle grandi personalità. Sandro Galante Garrone era un uomo dolcissimo, pieno di humour, anche lui era stato uno dei pezzi grossi di Gl in Piemonte. Lo stesso si può dire per Quazza. Era gente con una maturazione rara per un intellettuale, si erano sporcati

le mani in questa guerra che alcuni chiamano guerra civile.

 

Come influì la contestazione studentesca nella vita universitaria?

 

Con le agitazioni le forze della conservazione si arroccarono ancora più violentemente, nel baronato universitario si diffuse il terrore. Che gli studenti potessero pensare con la propria testa era veramente una cosa spaventevole, che scatenava terrore e portava a giri di vite. D’altra parte, insieme con tutti i lati indubbiamente giustificati, per così dire vincenti, dell’agitazione, c’era anche una buona dose di chiasso per il chiasso. “The Movement” invece mi era parso una cosa terribilmente seria, che andava a testa dritta anche contro la situazione internazionale, il Vietnam. Perlomeno a me parve maledettamente serio.

 

Tuttavia lei non ritenne che con gli studenti contestatori non vi fosse margine per alcuno scambio né ritenne alcune loro richieste ingiustificate.

 

I baroni avevano paura a sedersi vicino a me. Sull’onda del terrore pensi quale silenziosa rinascita dell’eterno fascismo…il barone vuole lasciare tutto fermo perché vuole il suo potere, non se ne accorge magari lui stesso che questa è una mentalità fascista, una mentalità del potere antidemocratica. Ho l’impressione che ci voglia poco a scatenare una reazione antidemocratica in questo paese! Io sono stato ad Harvard, nel Wisconsin, all’Università di California, e ci ho sguazzato dentro, il mio mondo era quello, ho avuto delle offerte molto allettanti in California. Sono tornato in Italia proprio per convinzione di dovere politico, non perché ci stessi bene.

 

Nel corso di un’assemblea di soci della Ssi che si tenne nella primavera del ‘68 lei pronunciò un intervento molto autocritico rispetto ai risultati di quei primi anni di lavoro. Disse che era stato trascurato il problema del rinnovamento didattico e che il “nobile accattonaggio presso i potenti” aveva ottenuto sempre “molte belle parole” e “pochissimi fatti”.

 

Ricordo confusamente di essere riuscito una volta a farmi ricevere da un altissimo numero della Dc, mi pare allora fosse ministro della Pubblica Istruzione (ora ha delle accuse pesanti, non faccio il nome perché come dice il motto inglese never hit a man when he’s down…). Credo fosse il 1969. Mi ricordo di essere andato da questo quasi piangendo. Guardi signor ministro, qui abbiamo questi studenti ai quali non dobbiamo dare la lezione infernale che in Italia non si fa nulla, perché questi diventeranno terroristi! Avevo azzeccato. Diventano terroristi se non gli dà la speranza di ottenere qualcosa con mezzi pacifici. Volto impassibile, ottuso, sa com’erano i democristiani: non ti rispondevano mai direttamente, opponevano questa sonnolenza millenaria…

 

In che modo avreste potuto ottenere maggiori risultati?

 

Guardando le cose ex post…pensando a quel terribile muro di gomma…e non scherzava neanche il Pci, che faceva razzia di posti, di potere, ma non faceva nulla per migliorare la situazione.

 

Come fu considerata la Società degli storici italiani da parte del mondo politico e universitario?

 

In gran parte finì per essere ricollegata al Psi, ma di origini socialiste pure c’era solo Guido Quazza. Quazza aveva combattuto da valoroso in Val Sangone, la chiamavano “il vallone dei morti” e lui era stato comandante di una formazione proprio lì. Deve aver rischiato la pelle quanto nessuno. Poi si avvicinò ai socialdemocratici, ma naturalmente tra un vecchio combattente antifascista e quella melma carognesca che era il partito di Saragat lo scoppio fu immediato. Quazza ha avuto una grossa impressione dal movimento del ’68, il ’68 lo ha catapultato all’estrema sinistra, poi ha avuto una forte inclinazione terzomondista e quindi ha preso quella posizione diciamo tendenzialmente a sinistra del Pci e si è un po’ tirato dietro tutta una certa corrente ultrasinistra. Quazza aveva l’austerità di chi

la Resistenza l’aveva combattuta davvero, aveva tutto l’impegno morale oltre che un’intelligenza molto lucida, molto forte e quindi si capisce che Quazza fosse su queste posizioni. Io forse allora avevo più idee di riforma politica, cioè di trasformare quello che rischiava di essere un giochetto tra baroni in un movimento politico di base. Ovviamente perché diventasse un movimento politico occorreva che avesse un seguito, invece era schiacciato tra le due macchine di potere. C’era un po’ di idealismo astratto in me, perché si aveva a che fare con due potentissime macchine di potere e lo si sentiva da ogni parte. Però in quel momento vi era la speranza di un Psi che riuscisse a pilotare le forze, a cominciare proprio dagli storici.

 

Nel 1968 fu eletto il terzo Consiglio direttivo della Società degli storici italiani.

 

Martini, come abbiamo già detto, era un azionista moderato, blando, personalmente molto cortese. Federigo Melis era un fanfaniano ortodosso. Paolo Brezzi era un cattocomunista. Franco Valsecchi, anche di lui abbiamo già parlato, era destra pura, rappresentava il bon ton milanese, l’alta società liberale, però era molto aperto, anche se ideologicamente di destra forte. Mario Tamborra era un cattolico aperto e serio. Firpo valeva più che altro per la sua capacità di studioso. Paradisi era uno storico del diritto, ma lo conoscevo poco. Luigi Bulferetti poteva essere tutto. Pasquale Villani era comunista. Di Guido Quazza si è già detto. Ettore Lepore era di formazione idealista ma di sinistra, era intelligentissimo, purtroppo è morto giovane, era un cannone in storia antica. A questa data la destra si era ormai impadronita della Società, era conquistata a destra cioè si era trasformata da una pattuglia riformatrice di avanguardia in un organo corporativo che non ha retto, come organo corporativo non ce l’ha fatta. Cosa vuole mettere assieme un Guido Quazza, che era in cammino dalla socialdemocrazia verso l’estrema sinistra, con il bravo Valsecchi, che rappresentava la Milano bene, quella con tanti dané!

 

Quindi a suo parere a quella data non era più possibile un azione comune degli storici sul terreno della riforma degli studi in grado di superare le differenze politiche.

 

No, la storia di per sé, diciamolo senza veli, è un mestiere politico. Se io faccio la storia della Rivoluzione francese faccio un discorso politico, si vede chiaramente se sono di destra o di sinistra, non c’è nulla da fare e questo vale anche per la storia antica. Lo è per natura, il nostro è un discorso politico. Inutile nascondersi. Non c’è nessun grande storico che non fosse anche un politico: Machiavelli, Guicciardini. Il nostro lavoro è politico per sua natura e per sua condanna. Non credo che sia possibile mettere insieme gente che la pensa bianca e gente che la pensa nera. E finì con la riconquista di destra, favorita dall’estremismo del ’68.

 

Tra i primi impegni della Società degli storici italiani vi fu quello per l’ampliamento cronologico dei programmi scolastici in direzione di una maggiore contemporaneità e di conseguenza per l’inserimento della storia contemporanea tra le discipline accademiche. In effetti le cattedre di insegnamenti contemporaneistici crebbero rapidamente.

 

E’ stato un passaggio indolore. Fu più combattuta l’introduzione della storia americana! Tutto lo schieramento comunista non ne voleva sapere, bisognava essere ignoranti di storia americana per combattere meglio l’America! Ricordo un illustre filosofo ex idealista, poi comunista, che diceva che introducendo la storia americana la Cia sarebbe entrata nelle università. Che rapporto ci fosse tra storia americana e Cia non si capisce! La storia contemporanea entrò un po’ per pressione dal basso: di più in più ci sono giovanotti e ragazzotte che si interessano di questa materia, di più in più il loro rispettivo barone preme perché gli si faccia strada. Poi quando si tratta di aumentare posti, di destra o di sinistra va sempre bene!

 

Vi furono ostacoli all’interno della “comunità scientifica” circa la possibilità di insegnare la storia contemporanea?

 

 

Direi di no, salvo casi isolati. Tutti avevano letto Croce: non c’è storia se non c’è storia contemporanea. Anche quelli di destra Croce lo avevano letto. Non direi che la battaglia fosse su questo.

 

Questo valeva anche per la storia della Resistenza?

 

La storia contemporanea era l’età di Giolitti, persona per bene; era ammessa fino alla storia del fascismo. La Resistenza non gli entrava in testa: la frattura che aveva portato nella vita italiana la lotta antifascista era difficile da inghiottire. Ma storia contemporanea voleva dire dal 1870 in avanti, c’era posto per ogni scelta.

 

Che ruolo attribuirebbe all’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia nella formazione della contemporaneistica come disciplina legittimamente accademica?

 

Non era un’istituzione accademica. Anzi direi che una delle sue debolezze era lo scarso aggancio al mondo accademico. Il primo presidente fu Parri e Parri chi era per un barone? Un ufficiale decorato. Parri è il Maurizio che io ho venerato con le lacrime agli occhi, mi sarei fatto fare a pezzi per lui, però nel mondo accademico non aveva nessun peso. La debolezza dell’Istituto storico della Resistenza era che il capo in testa non aveva voce nel mondo accademico, l’istituzione aveva un forte sapore di associazione combattentistica. Poi arrivò Quazza, grande uomo quale era, ma si era messo alla testa dell’ultrasinistra e quindi la storia della Resistenza finiva per diventare un monopolio, o quasi, di quell’area, che sosteneva tesi piuttosto azzardate, tipo questo gusto di trasformarla in guerra civile.

 

Dunque lei non ritiene che l’INSMLI abbia contribuito alla formazione di una storiografia di livello scientifico sulla storia del fascismo e della Resistenza.

 

Sono stati due mondi diversi. Per il mondo baronale questi improvvisati, ex combattenti, erano bravi ma non contavano nei concorsi! Quazza era diventato il simbolo degli ultra, dei vietnamiti più accaniti. Per quello che ricordo io l’interscambio fra accademia e istituti storici della Resistenza era modestissimo. Era forte il giudizio negativo sul fatto che fossimo ex combattenti e che ci saremmo fatti la storia a modo nostro. Lei conosce l’ondata sentimentale sollevata dal Vietnam: andava da Quazza a La Pira, a Enriques Agnoletti. Quindi sembrava molto legata a questo clima politico estremistico poco conciliabile con una visione scientifica. Una volta scrissi su “Il Ponte” un articolo per ricordare che i caduti delle Forze armate regolari erano molti di più dei partigiani. Mi scrisse una lettera un giovane meravigliato! Se i fascisti ammazzano tre partigiani si fa un monumento, se cade una bomba e muoiono tre regolari si scrive “niente di nuovo all’Ovest”. Ricordo lo stupore di questo giovane, evidentemente non sapeva che diavolo fosse una battaglia regolare. Quindi tra le due linee c’era un rapporto direi modesto, in complesso. Il fatto stesso che gli istituti storici avessero un forte carattere veterano, reducistico, non li rendeva scientificamente valutabili. Forse mi sbaglio.

 

Ciò non toglie che l’insegnamento della storia della Resistenza nella scuola secondaria avesse come motivazione l’acculturazione democratica delle giovani generazioni.

 

Ma certo, naturale, per carità! Ma qui parla il professor Giorgio Spini personalmente, il professore ordinario di storia. Il giudizio storico cui io aderisco è che c’è stata la seconda guerra mondiale, combattuta da eserciti armati di armi moderne: il che vuol dire l’orrore dei bombardamenti a tappeto, l’orrore dell’artiglieria a tiro rapido, vuol dire l’orrore dei campi minati…non le faccio la storia degli orrori. Cosa vuole che abbiano pesato, in questo quadro apocalittico, i repubblichini della Decima mas? Io ero inglese, ero al fronte dell’VIII Armata britannica, non ero sulla V Armata, non ci sono stato personalmente, ma so che con lo sbarco di Anzio e Nettuno il governo di Salò provò a mandare delle truppe fasciste su quel fronte. Vedo dai dati che durarono esattamente 12 giorni; in 12 giorni furono letteralmente spazzati via. Capirà, l’armamento moderno è una cosa apocalittica! Da noi, nell’esercito britannico, l’armamento

era di una modernità schiacciante, l’arma di cui erano dotati i carri leggeri d’assalto era la mitragliera bren. La bren spara uno dopo l’altro proiettili così grossi da penetrare quel muro. Lo slancio di consenso italiano rappresentato dalla Resistenza è stato importantissimo sul piano militare e per l’incoraggiamento che ha dato alla parte alleata. Quando arrivava il primo plotone inglese nel villaggio, immediatamente la gente indicava dove erano le mine e quelli non saltavano in aria. In termini strettamente militari la Resistenza ha dato un aiuto prezioso, incalcolabile, però la guerra era quella dei mezzi moderni, di quelle bestiacce che sono i carri tigre tedeschi, o gli sherman, più leggeri, quindi più manovrabili, ma con meno potenza del tigre.

 

In sostanza lei pensa che la storiografia della Resistenza non abbia saputo implicare un’analisi complessiva dei contesti che l’avevano generata?

 

C’è stata una inevitabile tendenza ad occuparsi unicamente dell’aspetto Resistenza-fascismo repubblichino, dimenticando il grosso della partita. Non so se sbaglio, ma mi dica, se lei vuole studiare la campagna d’Italia tra tedeschi e inglesi che libro italiano sceglie? Le perdite tedesche furono 350 mila tra morti, feriti e dispersi, le nostre circa 250 mila, faccia la somma e capirà che carnaio. Ha un’idea il ragazzino italiano che è successo questo? No, lui vede un film dove ci sono i partigiani e i tedeschi; poi arrivano gli alleati distribuendo caramelle alle signorine, ma per lui quelli mica hanno combattuto.

 

Direbbe che la storiografia della Resistenza è nata su delle semplificazioni, al limite estremo su delle mistificazioni?

 

Mistificazioni proprio no! Marzabotto c’è stato, non è una mistificazione accidenti! Sant’Anna di Stazzema c’è stata. Divento una belva quando vedo i cosiddetti revisionisti che vogliono negare questi orrori, dicendo che poi molti sono stati ammazzati. E grazie! Cosa vi aspettavate dopo tutto quello che era successo, che arrivassero con i cioccolatini? Non vorrei essere troppo cattivo, ma ne hanno ammazzati pochi visto tutto quello che era successo di orribile. C’è stata l’inevitabile, ripeto inevitabile, tendenza di una storiografia fatta da reduci a raccontare quello che avevano fatto loro. Poverini avevano ragione! Quello che è mancato a livello accademico è che non c’è una storia attendibile sulla guerra, bisogna ricorrere a opere straniere. Lasciamo il piano militare, torniamo al politico. Lei sa bene che una delle piaghe dell’Italia postfascista fu il problema del separatismo siciliano. Cosa indica in bibliografia uno studente? Non c’è niente, se non robaccia! Ma come è possibile? Tra poco avremo uno o due o tre libri su quello che è successo nell’ultimo villaggio della Val Camonica, però non c’è una storia attendibile della lotta politica in Sicilia. Solo roba giornalistica o sensazionale su Giuliano e compagni. Io sono uno studente peruviano che arriva in Italia e dice: i miei genitori erano siciliani, mi dica, cosa c’è sulla storia della Sicilia? Lei deve rispondere: nulla. A sessant’anni! Guardi che sul Regno del Sud ancora oggi l’unica opera di valore è quella di Agostino Degli Espinosa, che è del ’47 o giù di lì. Se mi parla di deformazione no, ma di indirizzi di studio sballati sì! E continuare ancora per l’ennesima volta a rifar la storia dei partigiani eroici della Val Camonica confesso – sono ex combattente anche io e non è del tutto colpa mia se ho riportato la pelle sana a casa – ma come storico mi pare un indirizzo monco.

 

Gli anni ’60 però sono il decennio in cui si comincia a studiare il fascismo con crismi scientifici, limitando tanto gli approcci demonizzanti che le tesi parentetiche…

 

Sul fascismo ci sono fior di opere attendibilissime. Direi che a parte i faziosi matti del revisionismo, nel mestiere degli storici si è arrivati ad una communis opinio all’ingrosso intorno alla vicenda fascista, direi. Ci sono solo questi stravaganti del revisionismo a rivendicare la campagna demografica, lei crede che ci sia qualcosa da salvare? Sulla battaglia del grano non c’è proprio nulla da salvare, nulla.

 

 

LA CLAUDIANA CAMBIA

Al fine di proseguire nel mutato contesto odierno l'attività dell'ente Libreria editrice Claudiana - costituita nel 1855 - venerdì 3 dicembre 2004 è stata fondata a Torino la società a responsabilità limitata Claudiana s.r.l.. Operativa dal 1° gennaio 2005, la nuova società - che mantiene la caratteristica di essere senza fini di lucro - conserverà la sede a Torino in via SanPio V 15. Soci fondatori della società a responsabilità limitata sono la Chiesa
evangelica valdese - socia di maggioranza e attuale proprietaria della Libreria editrice Claudiana -, la Chiesa evangelica luterana in Italia, l'Unione delle chiese evangeliche battiste in Italia e l'Opera per le chiese evangeliche metodiste in Italia.


Con l'ingresso dei nuovi soci, Claudiana rafforza la vocazione originaria:essere la casa editrice di tutto il protestantesimo italiano. Mediante il nuovo impianto societario, Claudiana si propone di raccogliere con nuovo slancio la sfida di fungere da ponte fra le culture protestanti nordeuropee e nordamericane da un lato e la cultura italiana dall'altro, nonché di presentare nel nostro paese l'elaborazione e le istanze di una cultura che ha contribuito in modo assai significativo allo sviluppo del mondo moderno.
Il primo consiglio di amministrazione è composto da Enrico Mariotti, presidente e amministratore delegato, valdese; Jürgen Astfalk, vice presidente, luterano; Eugenio Bernardini, valdese; Riccardo Bachrach, luterano, Guido Gabaldi, battista, e Gianluca Nigro, metodista.


La Claudiana è la casa editrice di riferimento della cultura protestante italiana. Deve il suo nome a un grande vescovo di Torino vissuto nel IX secolo, lo spagnolo Claudio, considerato un precursore del movimento evangelico per la lotta contro la venerazione delle immagini e l'impegno in favore della diffusione delle sacre Scritture.

Fondata a Torino nel 1855, sei anni dopo fu trasferita a Firenze, dove operò al servizio delle chiese protestanti italiane grazie a una rete di punti vendita e all'attività di venditori itineranti detti "colportori". Nel 1924 fu nuovamente trasferita, questa volta a Torre Pellice, nelle valli valdesi del Piemonte. Dal 1960 ha infine fatto ritorno nella città d'origine.

Fortemente sostenuta da comitati internazionali, nella seconda metà dell'800 fu attiva, con opuscoli, trattati e almanacchi, nella divulgazione e diffusione della conoscenza del testo biblico.
Prima in Italia, nel 1860 pubblicò un Nuovo Testamento in volgare, seguito ben presto dall'edizione completa della Bibbia nella versione seicentesca di Giovanni Diodati che le valse un premio all'Esposizione Universale di Torino del 1898. Fu inoltre la prima casa editrice italiana a lanciare, nel 1870, un mensile illustrato rivolto ai ragazzi, "L'amico dei fanciulli", che ebbe larga diffusione nelle scuole di Stato.


Non vanno dimenticate le numerose iniziative e pubblicazioni in campo storico, come la collana "Biblioteca della Riforma in Italia", diretta da un comitato presieduto da Karl Benrath, le opere di insigni studiosi quali Emilio Comba, Enrico Meynier e Giovanni Jalla nonché la "Rivista cristiana", diretta per lunghi anni dallo stesso Comba.


Tra i principali autori del Novecento ricordiamo i teologi Giovanni Miegge, autore di una biografia di Lutero ripresa da Feltrinelli, e Vittorio Subilia, nonché gli storici Enea Balmas, Giovanni Gonnet e Giorgio Spini. Tra gli autori tradotti segnaliamo Dietrich Bonhoeffer, Karl Barth, Hans Küng, Gerd Theissen, Paul Tillich, Alister E. McGrath e Rolf Rendtorff.


Fedele allo storico compito di promozione e studio della Bibbia oltre che di mediazione tra la cultura protestante mondiale e quella italiana, tanto cattolica quanto laica, attualmente l'editrice Claudiana è attiva in quattro ambiti principali: storia e pensiero della Riforma in Italia ed Europa (con le opere di Lutero, Calvino e Melantone),

teologia protestante (con commentari biblici e manuali universitari), cattolicesimo critico (con i testi di Küng, Boff, Denzler, Haag, del movimento "Noi siamo chiesa") e infine questioni di attualità etica (con volumi sulla bioetica, la procreazione assistita, l'omosessualità). Non vanno dimenticate opere per ragazzi quali Il Popolo della Bibbia e il dizionario biblico Navigare nella Bibbia, tradotte in diverse lingue. La Claudiana pubblica una cinquantina di novità all'anno. Parte integrante della casa editrice è una rete di librerie omonime, con sedi, in ordine cronologico, a Torre Pellice, Torino, Roma, Milano e Firenze.




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Firenze, 29-30 gennaio 2005

Osare la Pace per fede

Giustizia e pace si incontreranno…la verità germoglierà dalla terra

Un incontro ecumenico di giovani per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato: un’occasione per conoscerci tra giovani cristiani di chiese e comunità diverse.. un momento per riflettere insieme … un week-end di festa e di pace!

Sabato 29 gennaio 2005

14.00 Meeting Center LA CALZA, Piazza della Calza 6, Firenze

· Accoglienza dei partecipanti

· Interventi:

“Cercate la giustizia”, mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea

“Non in mio nome”, pastora Letizia Tomassone, Chiesa Metodista, Carrara e La Spezia

“La salvaguardia del creato”, p.Traian Valdman, Chiesa Ortodossa Rumena, Milano

·Saluto di un rappresentante dell’associazione Giovani Musulmani d’Italia

17.30 …Per conoscersi e riflettere insieme

· Gruppi di discussione tematici animati da testimoni di lavoro ecumenico e per la pace in Italia.

20.30 Salone “La Fiaba”, via delle Mimose 12 (parrocchia dell’Isolotto)

· Grande festa con cena, musica, stands e video

(Ospitalità in famiglie e parrocchie fiorentine)

Domenica 30 gennaio 2005

10.30 Tempio Valdese, Via Micheli (angolo via Lamarmora)

· Liturgia Ecumenica dalla Parola: interventi di

Ing. Ionut Coman, teologo, Chiesa Ortodossa Rumena, Firenze

Mons. Claudio Maniago, vescovo ausiliare della Diocesi di Firenze

Past. Davide Mozzato, Chiesa Avventista, Firenze

Coro di "Nehemiah H. Brawn".

· Saluto di un rappresentante dell’Unione Giovani Ebrei Italiani

· Conclusioni

AGAPE – Centro Ecumenico, AGESCI, Azione Cattolica Italiana, Comunità di S.Egidio, Commissione Ambiente Globalizzazione (FCEI), Federazione Giovanile Evangelica Italiana (FGEI), Federazione Universitari Cattolici Italiani (FUCI), Movimento dei Focolari, Pax Christi, Segretariato Attività Ecumeniche (SAE); riviste Confronti, Mosaico di Pace e Testimonianze, radio Voce della Speranza (92.4 Mhz);Arcidiocesi di Firenze, Chiese Evangeliche e Chiese Ortodosse di Firenze,

Per informazioni e iscrizioni (entro il 20 gennaio): Segreteria di Pax Christi, V.Quintole Rose 131, 50029 Tavarnuzze (FI) E-mail: info@paxchristi.it Tel.: 0552020375 Fax: 055 2020608

 

Segreteria del Convegno presso il Centro La Calza a partire dalle 12 di sabato 29

Contributo previsto: 5 Euro per la partecipazione + 5 Euro per la cena

 

ADMO

Associazione Midollo Osseo

Via Puccini n.79

50041 Calenzano

tel.0558878094

segreteria ogni mercoledì dalle 15alle 17

admo.firenze@libero.it

 

 

Da molti anni svolgo attività di volontariato come tesoriere presso l’ Admo (Associazione Donatori Midollo Osseo) di Firenze la cui sede è a Calenzano.

L’Admo provinciale di Firenze fa capo come altre associazioni provinciali alla federazione Admo Toscana. Siamo una associazione Onlus no profit.

 

Da anni lavoro come infermiere professionale presso il reparto di Centro Trapianti di Midollo prima del prof.re Rossi Ferrini ora del Prof.re Bosi. Per questo insieme ad altri colleghi e qualche ex paziente molto motivati all’argomento ci siamo imbarcati in questa impresa.

 

Ultimamente il trapianto di midollo osseo e soprattutto l’infusione di cellule staminali ha avuto una pubblicità inusitata. Nel nostro caso noi interveniamo prima di tutto su malati ematologici (leucemie, linfomi, plasmacitomi,ecc) però ultimamente facciamo anche interventi su tumori solidi, su malattie autoimmuni (lupus, sclerodermie,sclerosi a placche). In altri centri si curano anche le Talassemie gravi,ecc.

Alcune malattie necessitano di trapianto autologo ( infusione del proprio midollo dopo chemioterapia) ma molto spesso necessita fare trapianto allogenico ( da donatore). Il donatore principe è sicuramente il familiare ( fratello,sorella) perchè è più compatibile essendo consanguineo del malato( questo per avere meno rischi di rigetto). Però questo purtroppo non succede sempre ed allora si sono create a livello mondiale delle banche del midollo per trovare dei donatori non consanguinei compatibili. Per diventare donatore ( età dai 18 anni ai 35 anni max) di midollo basta poco ( o molto): basta recarsi all’ambulatorio di immunogenetica e lì chiedere di fare un prelievo di sangue. A questo punto individuata la mappa cromosomica questi dati vengono messi in computers dal quale non uscirà se non quando un possibile ricevente non né attiverà la ricerca per se stesso. Ma trovare un midollo compatibile non è facile come sembra perché le probabilità sono una su tre.

Questo vuol dire che fatto il prelievo potremmo non sapere più niente per tutta la vita oppure essere chiamati dopo uno, due, cinque, dodici anni…per fare un ‘altro piccolo prelievo….insomma di regola ad una prima schermata può succedere che possano uscire anche cinquanta persone compatibili ma queste dovranno passare più prove per dire che potranno diventare donatori oppure no.

Al momento della effettiva scelta, il donatore sarà ricoverato in una struttura ospedaliera dove si svolgerà in sala operatoria il prelievo del midollo ( dopo il consenso del donatore. Il prelievo consiste in prelievi multipli posteriormente sulle creste iliache ( sede del midollo). Il ricovero dura in tutto tre giorni e poi il donatore potrà tornare a casa. Il midollo si ricostituisce entro due settimane. Negli ultimi tempi si è sviluppata una tecnica meno invasiva che quella che sfrutta la somministrazione a più riprese sotto cute dei fattori di crescita dei globuli bianchi. In seguito a questo raggiunto un numero sufficientemente molto alti di bianchi il donatore viene inviato al centro sangue dove effettuerà una “staminoaferesi” cioè attraverso una macchina speciale gli verrà filtrato il sangue e gli verrà prelevato così le cellule staminali.

 

Per questo è nata Admo per fare soprattutto informazione fra i giovani per ricercare donatori di midollo osseo (nello sport, nel lavoro, a scuola) ed è la sua attività principe.

 

Chiaramente come associazione svolgiamo anche compiti di supporto al Centro trapianti con somme che sono state volte a finanziare progetti di sperimentazione, borse di studio, apparecchi scientifici vari,ecc.

 

Per questo abbiamo delle attività di finanziamento che si basano non solo su donazione di familiari, o associati, o di chiunque voglia farlo ma anche partecipando a manifestazioni tipo quella del “panettone della vita” che si svolge tutti gli anni a Natale in tutte le piazze d’ Italia il sabato 27 e domenica 28 novembre.

 

I prodotti sono della Balocco:

 

panettoni da un kg e dei pandori da 750 gr con rivestimento di carta a 6euro, il panettone nella scatola di latta sempre da 1 kg a 8 euro e questo anno per i più piccini un panettocino di 100 gr con la nutella di 30 gr a 2.50 euro.

E’ possibile anche ordinare a me direttamente se qualcuno è interessato a fare un regalo diverso e contribuire così ad una associazione

 

Il nostro conto corrente postale presso la posta di via di Novoli è c/c n° 56342470 ( abi 7601-cab 2800 )

Il nostro conto corrente bancario presso la Cassa di Risparmio di Piazza Dalmazia è n° 22500

 

Altre attività sono la raccolta all’interno degli stadi di calcio, la vendita a marzo/ aprile di fiori e precisamente la margherita simbolo dell’Admo.

Luigi Rinaldi (Tesoriere Admo)

 

Unità della famiglia umana

 

E’ il tema di un altro convegno che si terrà anch’esso a Firenze il 30 gennaio, poco dopo quello dei giovani; gli inviti sono rivolti ad una diversa classe di età, bambini e ragazzi dagli 8 ai 12 anni di diverse estrazioni religiose e laiche. Partecipano all’organizzazione le diverse chiese cristiane di Firenze (cattoliche, evangeliche, ortodosse), insieme alla comunità ebraica e a quella islamica.

Il raduno è previsto alle 12 in piazza SS. Annunziata, con mostre e animazioni, pranzo per i bambini e i loro accompagnatori, festa e corteo alle 14 fino a piazza della Signoria; accoglienza a Palazzo Vecchio del Sindaco e varie autorità; spettacolo e animazioni a cura dei vari gruppi di bambini con coinvolgimento del pubblico. Conclusione con lettura di testi e canti alle ore 17.

Calendario di gennaio 2005

martedì 11 alle ore 21 corso per Predicatori Locali in v. Manzoni 21, con il past. Bruno Rostagno.

mercoledì 12 dalle ore 9.30 in v. Manzoni 21 incontro dei pastori e dei responsabili, con agape.

sabato 15 alle ore 16 in v. Manzoni incontro con il past. G. Platone e J.J. Peyronel: “focus-group” su Riforma, il nostro settimanale comune, suggerimenti, giudizi, consigli.

lunedì 17 alle ore 21 presso la comunità di S.Ignazio, via Spaventa 4-6 incontro con il Rav Joseph Levi su “La preghiera: il rapporto con Dio e il rapporto con il sé”.

martedì 18: inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: presso la Chiesa della Trinità, Via Micheli, a cura della Chiesa Metodista (per riparare a un errore sui depliant, dove appare l’indirizzo della chiesa valdese, ma doveva aver luogo presso la chiesa metodista) alle 18. Relatori: prof. Marco Bontempi (cattolico), p. Petre Coman (ortodosso rumeno), rev. L. MacLean (anglicano).

mercoledì 19 alle ore 18 presso la chiesa di St. James, via Rucellai 8, incontro di giovani. Interventi di: D. Buttitta (valdese), N. Brown (pentecostale), R. Volpe (battista), con musica gospel.

giovedì 20 alle ore 19 presso la Chiesa cattolica della Sacra Famiglia, via Gioberti 33, con il past. D. Maselli, p. G. Blatinski, mons. T. Verdon.

venerdì 21 alle ore 19 presso la chiesa cattolica di S. Maria a Coverciano, via M. Manni 85, agape fraterna e scambio di esperienze fra quanti lavorano nel settore diaconale.

lunedì 24 alle ore 21, presso la Badia Fiorentina (via D. Alighieri 1) con fr. A. Emmanuel, R. Burigana, M. Affuso.

martedì 25 alle ore 18 presso la chiesa anglicana di St. Mark, via Maggio 16, serata Taizé con canti e musica.

martedì 25 alle 19.30 presso la Claudiana riprendono gli studi del Dopo-Lavoro-Teologico, quest’anno si leggerà il libro di M. Welker “Che cosa avviene nella Cena del Signore?”

mercoledì 26 gennaio alle ore 18 al Centro Internazionale “La Pira”, via de’ Pescioni 3, dialogo islamo-cristiano: “Aspetti pratici della fede islamica” con il dr. Badaoui Mohammed.

sabato 29 e domenica 30 convegno giovani, v. pag.31.

domenica 30 convegno bambini v. pag.34.