Preghiera

di un soldato di notte

di Erri De Luca

 

Chi ha costruito una casa nuova e non l’ha abitata
chi ha piantato una vigna e non ne ha raccolto
chi ha una ragazza promessa e non l’ha presa
vada alla sposa, all’uva, al focolare
e ne goda possesso per un anno
prima di unirsi agli altri nella guerra.

Infine chi ha paura, chi è tenero di cuore
resti a casa e non sciolga il coraggio
ai suoi fratelli in guerra.
Ho letto queste regole nei libri sacri
e ho avuto desiderio di appartenere a un popolo antico
di buon cuore con la gioventù.
Perché ho lasciato il raccolto in fiore
la casa senza tetto
e la ragazza al treno.

Sono di sentinella sulla notte
da una cresta di vetta in una guerra insonne.
Le mitraglie sfracellano ghiaccio a lume di luna
aspetto che mi scuota il tremito del gelo
per tremare senza la vergogna.
Ho paura del cielo, che non faccia giorno
ho paura del suolo, che m’inghiotta vivo
ho paura del fiato che sale bianco al buio
e fa di me un bersaglio,
ho paura signore: perché a me questo?
Perché non ho diritto a vivere
e devo invece chiedere in ginocchio?
Non mi basta il domani, io voglio la durata
abituarmi agli anni, andare alle nozze dei figli
e in questa notte di bestemmia anche alle loro tombe.
Voglio avere sonno accanto alla ragazza
quando avrà i capelli bianchi.
Perché ti devo chiedere in ginocchio
di vivere, sfruttare fino a feccia
la vita che mi riempie?

Chi di noi avrà diritto a questo
non sarà il più giusto, né il migliore,
potrei essere anch’io, signore, le tue stelle
spegnile con le nuvole
ch’io resti invisibile alla mira
e al casaccio di schegge, ma pure se non puoi
proteggermi o non vuoi
non mi lasciare il corpo sopra i sassi
e gli occhi non li dare ai corvi.
Non mi chiedere conto delle collere
contro di te, non so pregare in pianto.
Quando gela non escono le lacrime,
piangerò in primavera.

(Opera sull’acqua, Einaudi 2002, p.26-27)

 

Che l’Amore di Cristo riempia i nostri cuori

di Samuele Pasqui

 

Prologo

 

Ci sono momenti in cui la nostra vita subisce cambiamenti improvvisi….e repentini…Questi cambiamenti possono riguardare noi come persone… la nostra salute…la nostra famiglia….il nostro lavoro…la chiesa o la comunità di cui facciamo parte…In questo momento io personalmente sto sperimentando, dopo molti anni di vita coniugale, la solitudine…I primi tentativi di cucina.. vi debbo confessare che sono stati così e così.. ma dopo alcune esperienze … ci sto prendendo la mano…

Però vi confesso che per uno compagnone come me trovarsi a parlare con un muro davanti è un po’ un problema…anche perché penso che.. se continua così il muro mi cascherà addosso dalla disperazione..

 

Introduzione

 

Tutti i cambiamenti costituiscono un banco di prova della nostra fede e quando ci troviamo ad affrontarli…molte volte non sempre dimostriamo quella maturità spirituale che dovremmo avere.. l’apostolo Paolo dovrebbe oggi ancora parlare anche a noi come a dei bambini. E così riflettendo sul mio cammino di vita cristiana mi è sorta spontanea una domanda? Perché mi sento solo? Perché di fronte a questo momento difficile mi sento solo ? Perché a volte mi affliggo più di quanto devo? E allora ho ascoltato il mio cuore ed il mio cuore mi ha risposto: sei diventato cieco Samuele, devi comprarti del collirio per ungerti gli occhi

e vedere accanto a te c’è qualcuno …c’è sempre stato qualcuno di cui conosci bene il nome, un nome grande potente, un nome che dona guarigione e salvezza, che dona pace e serenità, lo conosci da sempre come anche Lui ti conosce pienamente da sempre

Ma se lo conosco da sempre perché non lo sento adesso? Perché non lo vedo? Perché ora nel tuo cuore c’è dolore, sofferenza, rabbia talvolta, delusione, sfiducia..

Dove queste cose sono presenti, Lui non c’è.

Ora nel tuo cuore c’è buio, ci sono tenebre; hai bisogno che Lui illumini gli occhi del tuo cuore affinché tu possa vedere. Odi tu Gesù ti chiama, ci chiama, ci chiama e ci chiama per nome, perché Lui conosce le nostre sofferenze i nostri dolori. Nobody knows the trouble I have seen, nobody knows but Jesus, but Jesus, our saviour.

“ A Lui apre il portinaio e le pecore ascoltano la sua voce ed egli chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori.”

Il Signore ci chiama per nome. Gesù Cristo il Signore dunque ci conosce e ci ama. E allora..se conosco, se conosciamo e riteniamo fermamente queste certezze perché non ci accorgiamo che Gesù sta camminando accanto a noi?

Non arde il nostro cuore in questo nostro camminare per Emmaus? Così in preghiera il Consolatore ha parlato e mi ha detto: Apri il tuo cuore indurito dalle prove all’amore di Cristo, a Cristo Gesù. Apri il tuo cuore all’amore di Cristo va da Lui..

Corri da Lui…

 

L’amore di Cristo ci è necessario

 

E allora ho capito, nel momento in cui ho capito, ho sentito veramente un grande bisogno dell’amore di Cristo nel mio cuore, ho sentito quanto si era inaridito il mio cuore quando si era indurito. E allora in preghiera l’ho chiamato, nella lode lo ho chiamato:

Vieni , l’alma mia ti invoca , o Gesù che m’hai salvato,
al tuo amore immensurato abbandono questo cor
Si la grazia tua cancella, Ogni macchia di mia vita
Da Te viene un ‘infinita Pace all’alma o Salvator
Oh dimora in me Signore, mia difesa e mio conforto
La mia vita sempre assorto fa ch’io scorra nel tuo amor
Vieni, l’alma mia Ti chiama, ogni bene trovo in te;
il mio core te sol brama, O Gesù.. dimora in me.
Vieni, l’alma mia Ti chiama, ogni bene trovo in te;
il mio core te sol brama, O Gesù.. dimora in me

Questa deve essere la nostra preghiera se vogliamo che l’amore di Cristo e l’amore per Cristo riempia veramente la nostra anima e le nostre vite. Il nostro rapporto con Gesù e con il Padre è un rapporto di amore, molte volte però noi vogliamo quasi ignorarlo, siamo tentati di affrontare la vita soltanto con le nostre poche deboli forze e questa tentazione produce allora in noi un senso grande di impotenza e di avvilimento. E’ allora che dobbiamo chiedere al Padre quello che il poeta Tagore chiede in questa sua bellissima poesia-preghiera:

 

Non andare via, Signore

Quando trovi chiusa
la porta del mio cuore,
abbattila ed entra:
non andare via, Signore.

Quando le corde della mia chitarra
dimenticano il tuo nome,
ti prego, aspetta:
non andare via, Signore.

Quando il tuo richiamo
non rompe il mio torpore,
folgorami con il tuo dolore:
non andare via, Signore.

Quando faccio sedere altri
sul tuo trono,
o re della mia vita:
non andare via, Signore.

RABINDRANATH TAGOR

 

 

E questo deve essere il nostro sentimento quando il nostro cuore non è riscaldato dall’amore di Gesù: Abbatti o Signore la porta del mio cuore, quando ho dimenticato il primo amore, quando ho dimenticato l’amore che la sposa deve avere per il suo sposo, abbatti la porta del nostro cuore quando l’abbiamo chiusa e puntellata con i nostri dolori e le nostre sofferenze

Solo tu sei forte e potente da poter riaprire la porta della nostra vita e farci così tornare a vivere perché tu sei la vita, solo tu.

Non andare via, sii paziente con noi, perché siamo deboli. Siamo soltanto dei vasi di terra. lascia entrare il re di gloria recita un inno:Apri il cuore al buon Gesù. Lascia entrare il re di Gloria, non tardar.. non tardar più.

Non tardiamo dunque. Non attardiamoci sulle strade disastrate della rinuncia, ma apriamo i nostri cuori affinché l’amore di Cristo li riempia, finché possiamo vivere una vita esuberante nel pieno vangelo, sospinti dallo Spirito Santo.

E quando questo stato di grazia sarà operante in noi allora nascerà, da noi nascerà immediatamente una richiesta:

 

Che tutto sia in me amore

Che la fede,sia l'amore che crede.
Che la speranza, sia l'amore che attende.
Che l'adorazione, sia l'Amore che si prostra.
Che la preghiera, sia l'Amore che s'incontra.
Che la mortificazione, sia l'Amore che s'immola.
Che soltanto il tuo Amore , o Dio,
diriga i miei pensieri,
le mie parole e le mie opere.

Perché una volta che avremo gustato che il Signore è buono, una volta che avremo sperimentato la pienezza del suo Amore allora, riacquistata la memoria, il nostro cammino sarà agile avremo piedi di cerva per le alte vette, non vorremo più tornare indietro.

E se l’amore di Cristo è in noi , allora tramite noi , Cristo giungerà con dolce potenza ai cuori di quanti ci sono vicini, di quanti incontriamo. Allora veramente avverrà come dice l’apostolo Paolo: Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. E come un fuoco in me questo amore si diffonde e parla ad altri che sono privi del Suo Amore, Quindi quando l’amore di Cristo e per Cristo si trasforma in noi in amore per gli altri, si realizza l‘agape.

Che strana storia è mai questa: io cerco più amore da Cristo, ho bisogno di sentire il suo amore dentro me perché sono debole, lo chiedo in preghiera. Cristo abbatte le porte del mio cuore ed il Suo amore entra in me e questo è già un miracolo, ma il Suo amore non si esaurisce in me ma trabocca e si riversa sugli altri ed accende altri fuochi di amore.

Allora comprendo quanto sia irrinunciabile per me, per noi, per quanti vogliono essere maturi, l’amore di Cristo di quanto sia importante amare pienamente Cristo , amare sorelle e fratelli di Chiesa, amare gli altri.

Mentre però l’amore di Cristo è eternamente presente e disponibile, il nostro amore per Cristo è molte volte incostante, quindi alimentiamolo mediante la scrittura, riversiamolo sugli altri e rivolgiamo spesso al Padre la stessa preghiera di Tommaso D’Aquino

O Gesù che tanto mi ami,
ascoltami, te ne prego.
Che la tua volontà
sia il mio desiderio,
la mia passione, il mio amore.
Fa' che io ami quanto è tuo;
ma soprattutto che io ami te solo.
Dammi un cuore
così pieno d'amore per te,
che nulla possa distrarmi da te.

Dammi un cuore fedele e forte,
che mai tremi, né si abbassi.
Un cuore retto che non conosca
le vie tortuose del male.
Un cuore coraggioso,
sempre pronto a lottare.
Un cuore generoso,
che non indietreggia
alla vista degli ostacoli.
Un cuore umile e dolce come il tuo,
Signore Gesù.

Il nostro amore per Cristo deve renderci disposti a perdere tutto per Lui: Chi ama Padre e Madre più di me, non è degno di me, - dice il Signore - chi ama figlio o figlia più di me , non è degno di me,chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.

Mi ha colpito al riguardo questa favola del sûfi musulmano Farîd od-Dîn 'Attâr, intitolata La farfalla e la candela.
«Una notte le farfalle si riunirono, nell'ansia di conoscere la candela. Tutte dissero: "Occorre che qualcuno ci dia notizia di ciò che cerchiamo". Una farfalla andò presso un castello e dall'esterno vide la luce d'una candela. Ritornò e fece la sua relazione, descrivendola secondo ciò che aveva potuto capire. Ma una farfalla critica, che presiedeva l'assemblea, disse: "Non sai nulla della candela".

«Partì un'altra e, seguendo la luce, penetrò dentro, urtando nella candela, ma tenendosi lontana dalla fiamma. Svolazzò nei raggi dell'amata; ma si ritirò sconfitta dalla candela. Anch'essa ritornò e riportò una piccola manciata di segreti, riferendo sull'incontro con la candela. Ma la farfalla giudiziosa le disse: "Anche codesta non è vera conoscenza, mia cara. Il tuo rapporto vale l'altro".

«Partì una terza, ed ebbra si posò, sbattendo le zampe, sulla fiamma. Tese gli arti alla fiamma abbracciandosi a essa e vi si perdette gioiosamente. Avvolta dalla testa ai piedi dal fuoco, divenne rossa nelle membra come il fuoco. Quando la farfalla giudiziosa la vide da lontano diventata una cosa sola con la candela e divenuta del colore della luce, disse: "Solo questa farfalla ha raggiunto lo scopo. Chi sa qualche cosa? Solo essa lo sa". Chi più non sa e più non sente di sé, colui fra tutti sa! Finché non diventerai ignaro del tuo corpo e della tua anima, come potrai mai avere notizia della tua Bella?».

Che il Signore ci conceda di essere uniti a Lui nel suo amore e che la sua luce possa brillare in noi illuminando la notte che è fuori e la notte che vive nelle anime di chi ancora non ha accettato Gesù Cristo il Signore come suo personale Salvatore. Amen

 

Identità

ovvero

Il volto dell’altro

di Mario Affuso

(Conferenza tenuta al Centro “P.M.Vermigli” il 18 giugno 2005)

 

“In quanto esistente, sono alterizzato, non sono pura soggettività. Vorrei fare come se gli altri non fossero, però so che l’alterizzazione è una dimensione del mio stesso esistere. … L’esistenza è necessariamente coesistenziale. … Però, pur costretto a conoscermi non illimitato, non faccio che tentare di agire come se non fossi in contatto con gli altri, come se potessi affermare sempre la mia volizione immediata, di cui pur conosco le limitazioni. Il velleitarismo del singolarismo pratico è senza uscita; non riesce a trovare giustificazioni che abbiano un minimo di articolazione ragionata. La sua rozzezza è irrimediabile” (Pietro Piovani, Principi di una filosofia della morale, Napoli 1972, p. 89)

 

«L’io non chiederebbe che di aprirsi al tu, ma invece del tu, incontra le cose» (N. Berdiaeff)

 

«Guai a chi è solo!». Così recita il Qohelet/Ecclesiaste (4:10), e in questo nostro tempo lo si è in molti, nonostante gli innumerevoli mezzi di comunicazione di cui disponiamo. V’è da ritenere che la solitudine indotta, alla quale ci si può sentire quasi destinati o relegati, altro non sia che una forma di smarrimento esistenziale nel mezzo di una umanità che si presenta come una polverizzata diasporalità priva di connettivo. Il comune ricorrente tentativo di autodefinirsi in base alle cose che hanno maggior significato, religione, lingua, storia, valori, costumi, istituzioni, etc., produce una disconnessione della propria coscienza con e dal mondo reale o ‘di uso’ con la conseguente perdita di intenzionalità, cioè di quella tensione che guida verso un fine. Sembra che tutto degradi verso una comune insensatezza.

La solitudine è smarrimento di identità, eclissi di senso. Ci si sente come sull’onda di una generale e collettiva omologazione. Ma se con un atto inventivo si riesce ad afferrare il mitico “filo di Arianna” della propria esistenza, la coscienza potrà volgersi indietro, tornare sui suoi passi, reinserirsi nel solco smarrito della storia e qui individuare, recuperare, interiorizzare l’alterità propria e altrui ritrovandosi come soggetto tra gli altri soggetti dalle cui relazioni far rinascere la propria identità.

Il filosofo Salvatore Natoli, soffermandosi sul libro del Qohelet/Ecclesiaste, ci dice che «la misura intramondana della nostra finitezza, è soprattutto la legge dell’altro dentro di noi». Si tratta «dell’antecedenza della comunità sui singoli, dell’originalità e dell’inevitabilità del legame sociale quale condizione della nascita, dello sviluppo, della realizzazione di ogni individualità», una ‘legge’ che «insegna a decidere, a saper ricominciare» (Stare al mondo, p 203-205).

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Nello smascherare il solo uditore della Parola, cioè la persona che l’ascolta senza tradurla nella pratica, Giacomo si rifà alla metafora dello specchio: è come colui che “si guarda allo specchio, vede la sua faccia così com’è, ma poi se ne va e subito dimentica com’era” (1:23, Tilc 2001). Questa dello specchio è metafora usata molto spesso all’interno di discorsi etici e filosofici. Se in alcuni autori, per es., in Seneca, il mirarsi nello specchio è finalizzato alla autoconoscenza (Inventa sunt specula, ut homo ipse se nosceret), Giacomo, invece, vi ravvisa gli estremi di una una vera superficialità dell’Io nei confronti del . Lo scrittore biblico coglie nel segno e mette a fuoco un problema esistenziale.

Dispiace, in vero, che per un dettaglio teologico, cioè per una lettura asimmetrica del testo, Lutero abbia bollato questo scritto di Giacomo come epistola simile a paglia in confronto al vero oro del vangelo». E' un’ombra che resiste ancora in certi ambienti protestanti. Ma oggi non si può non concordare con Oscar Cullmann che vi scorge, invece, «un incontestabile valore teologico», soprattutto per «alcuni echi del Sermone della montagna e per una reale preoccupazione per i poveri». Ma già, a suo tempo, Melantone era intervenuto nella questione armonizzando la presunta contraddizione tra Paolo e Giacomo.

È seriamente interessante l’accostamento operato da Giacomo tra l’Io che guarda e il guardato. Lo stesso Paolo, a difesa del quale Lutero bolla Giacomo, accenna alla opinabilità dei responsi che derivano dallo specchio per chi in esso si rimira, opinabilità dello stesso specchio come strumento di conoscenza di : «Ora vediamo come in uno specchio in modo oscuro» (1 Cor 13:12a). Certo è che v’è in tutti il bisogno di riflettersi in uno specchio nella speranza di cogliere se stesso, ma, forse, soprattutto per vedere come gli altri mi vedranno quando sarò fuori dalle protettive pareti domestiche. E' fuori discussione che le risultanze di uno specchiarsi esercitano una influenza nell’intimo, sul profondo di chi si guarda. Si pensa, di solito, ed è luogo comune, che lo specchio dica sempre la verità. Ma per dire la verità lo specchio dovrebbe parlare, come nella nota fiaba di Biancaneve, anche se, potendolo, «Gli specchi dovrebbero (già) riflettere un momentino, prima di riflettere le immagini». Ma non possono né l’una e nell’altra cosa. Specchio, da specio, significa vedo, e non è ciò che si vede che conta ma la ragione profonda per cui ci si vede; perciò io mi vedo in modo spietato ed inesorabile, perché lo specchio mi fa vedere come sono e non come dovrei, vorrei essere; mi fa vedere come gli altri mi vedono. Lo specchio mi fa vedere con lo sguardo dell’altro e percepisco di me una ‘identità alienante’.

“Non si dovrebbero lasciare specchi appesi nelle proprie stanze…”. E' il refrain che incornicia, in apertura e chiusura, uno dei racconti più squisiti di Virginia Woolf, Io e l’altro. Gli specchi compaiono di frequente nelle infinite varianti con cui la letteratura occidentale ha voluto giocare con il tema del doppio: a cominciare dallo specchio d’acqua in cui Narciso contempla la propria immagine innamorandosi per sempre di quell’altro-da-sé che la superficie dello stagno gli restituisce.

Vorrei segnalare che lo specchio è oggetto di studi filosofici a partire dagli specchi ustori di Archimede con cui venivano incenerite le navi che assediavano Siracusa.

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Se ricordiamo le molteplici escavazioni che subiamo ogniqualvolta ci allontaniamo dallo specchio, non potremmo anche ora non essere assaliti da inquietudine sia che ci accettiamo, ammirandoci, sia che non ci accettiamo; ci segue una inquietudine che sembra sussurrare ai nostri orecchi le note parole di commiserazione: “Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’. / …/ Come dentro al tuo petto eterne risse / Ardon che tu ne’ sai né puoi lenir: / …/ L’umana tua tristezza e il vostro duol. …. “Lo spirito umano assomiglia a uno specchio incantato, che non riflette le cose nella loro purezza e nella loro struttura concreta, ma piuttosto mescolate ai propri fantasmi”. Quando addirittura non “si rasenta il ridicolo se ci si trova dinanzi ad uno specchio magico, su cui si riflettono di noi immagini superstiziose e spettri”. Allo specchio, se non ci si illude, si palesa una vera crisi di identità: mi accorgo di non essere come vorrei e subito il pensiero, in un crescendo di inquietudine, va, preoccupato, non alla ricerca del ma al come gli altri mi vedono e ne temo il giudizio. Ai miei occhi gli altri si trasformano in giudici e me stesso in oggetto di giudizio. Lo specchio non solo e non tanto trasmette il fantasma di me, ma mi propone la visione scomposta anche dell’altro che risulta, sia pur nella nostra inquieta immaginazione, ben lungi dall’essere “prossimo come me stesso”: ci scopriamo a guardarlo con sospetto e paura. Lo temiamo. Ma in realtà, al di là di ogni patetica immaginazione, l’insorgente vero e primario conflitto non è quello tra me e l’altro, ma tra l’io e il me. Occorre evitare l’odio di sé per evitare che si muti in odio per altri (P. Ricoeur).

Le eterne risse di carducciana memoria “che ci ardono dentro il petto” ci producono stati di disagio che ci fanno diventare “altro” da noi. Non siamo più ‘noi stessi’. Non diciamo, forse, che in una certa situazione il tale o la tal’altra persona, nota come mite e conciliante, diventa un altro, un’altra? Non ricordiamo di esserci noi stessi scoperti a volte diversi da come ci conosciamo?

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Esiste una alterità di me che mi spinge a certi autodoveri, cioè a doveri verso me stesso - “Ciascuno esamini se stesso”, suggerisce Paolo (1 Cor 11:28) - per puntare poi a doveri verso gli altri sì da sentirli “come me stesso”, unendoli a quel me verso il quale ho i miei autodoveri. Questa interiorizzazione degli altri mi porta a sentire molti eterodoveri come rivolti non solo verso gli altri ma anche verso me stesso.

Non meravigli questo rivolgersi a sé, semmai attraverso gli altri. Abbiamo ricordato Paolo al quale possiamo pur sentirci famigliari, ma vorrei ricordare un passo che traggo dall’ Ermeneutica del soggetto di Michel Foucault che ci propone una sorta di “conversione dello sguardo”: La consegna di “volgere il proprio sguardo verso se stessi” ha infatti un significato del tutto particolare, distinto sia dal “conosci te stesso” platonico, sia dall’“esamina te stesso” della spiritualità (cristiana). (…) In primo luogo, dunque, volgere lo sguardo verso di sé comporta l’averlo distolto dagli altri. E ciò significa, precisamente, distoglierlo dall’agitazione quotidiana, dalla curiosità che fa sì che ci interessiamo agli altri. [E di quel che gli altri possono pensare di noi, ndr] (…) Nel De curiositate Plutarco conclude che occorre sostituire alla conoscenza degli altri, o a una curiosità insana per gli altri (si pensi al moderno gossip! ndr), un esame almeno un po’ serio di se stessi. La stessa cosa accade in Marco Aurelio, in cui a più riprese viene formulata la seguente consegna: non occupatevi pertanto degli altri, poiché è molto meglio occuparsi di se stessi. (…) Insomma, non si deve guardare a quel che accade agli altri, ma ci si deve piuttosto interessare a se stessi. (Plutarco): invece di occuparti delle manchevolezze e dei difetti altrui, occupati piuttosto delle tue mancanze e dei tuoi difetti ed errori (…). La cosa che dovrà venire finalmente raggiunta è, per l’appunto, proprio il .». Manuela Sadun Paggi nel suo bel libro “Guarire le ferite” riporta un pensiero di Hetty Hillesum: “Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, e non vedo nessun’altra soluzione che quella di raccoglierci in noi stessi e di estirpare il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. Dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove”. Poco prima, la Manuela Sadun, scriveva: “Vorrei che tutti imparassimo a riconoscere i nostri stereotipi e pregiudizi, e non essere attenti a criticare quelli degli altri, con uno strano gioco di specchi che non ci toglie dall’ambiguità”.

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Solo quando avrò distolto lo sguardo dall’altro per concentrarlo su di me mi libero dalla tentazione di ridurre l’altro ad oggetto volgare della mia percezione riconoscendogli una iità alla pari della mia; allora una trasmutazione accade: l’altro da oggetto viene da me assunto come soggetto, quindi come “prossimo di me stesso”, parte di me, il che mi permette di recuperare la mia identità come soggetto con l’altro soggetto, come persona che per dilatazione etica da individuo, indivisibile, si ritrova ‘condividuo’. Ernesto Balducci, in occasione di una celebrazione della scoperta delle Americhe, inaugurò una sua conferenza con queste parole: “Quando Colombo, all’alba del 12 ottobre 1492, incontrò i primi indigeni nella piccola isola dei Caraibi, da lui battezzata San Salvador, questo avvenne: l’uomo incontrò se stesso e non si riconobbe”. Si cercava qualcosa e non qualcuno! Il qualcuno apparve dapprima come qualcosa! Qui in qualche modo si spiega la bellissima espressione del Natoli: “la legge dell’altro dentro di noi”.

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Senza gli altri, non possiamo vivere, dal momento che la mia esistenza è sì co-esistenza dei vari ‘me’, così come questi si esprimono nelle mie varie vicende, ma soprattutto co-esistenza con gli altri ‘io’ viventi ed a me ‘prossimi’, sia che si voglia lo stesso scopo o si lavori alla stessa impresa, sia che ci si senta di una stessa comunità, quella che noi stessi formiamo nella globalità del nostro essere. Ma è l’idea di comunità che va recuperata anch’essa nella prospettiva del rapporto io-l’altro ove non si afferma dipendenza, ma correlatività in un agire comune.

Il rapporto io-l’altro si costituisce tra persone autonome che reciprocamente si riconoscono come partners con uguali diritti, pronti ad assumersi la responsabilità del loro agire mondano. E' un rapporto ove scompare ogni possibile strumentalizzazione dell’altro ai fini della egotistica costruzione del sé, anzi il sé acquisisce una sua identità proprio nel proporsi all’altro con animo solidale, per aprirsi, con gli altri, alla solidarietà più ampia. Quindi non soltanto, con il Natoli, “la legge dell’altro dentro di noi”, ma anche “la legge del noi dentro l’alterità”. Una immersione nell’alterità che, mentre sembra annullarci, ci ricrea: “Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà” (Mt 16:25 e parall.). Ma salverà anche l’altrui per la solidarietà che si stabilisce nel riconoscimento della comune ricerca di senso e di identità. “Solo attraverso l’altro conosciamo la nostra peculiarità” (M. Sadun).

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Non identità come appartenenza declinata da formule che richiedono un’adesione tiepida, legalistica, più o meno apocalittica e semmai lontana da una responsabilità verso un presente in continuo cambiamento. In questo possibile cambiamento, invece, sta il segreto di una identità progressiva, capace di progredire con il progredire della storia. L’identità non è una permanenza effettiva. Spesso dimentichiamo che una identità autentica non è mai definita e/o conclusa, ma continuamente in divenire con quanto è specifico e caratterizzante del proprio tempo letto con gli occhi dello Spirito che è Spirito che chiama a libertà. Quante volte è stato detto, non so se vivendo seriamente o solo sperando, “Le cose vecchie sono passate; ecco, sono diventate nuove” (2 Cor 5:17). Scoprire, per noi credenti (sempre se non si è chiusi in plumbee griglie confessionali), il dialogo tra lo Spirito di Dio e il nostro spirito significa percepire il senso della presenza attiva di Dio nella storia e innanzitutto nella nostra storia personale, storia del nostro divenire inteso non come mera sequenza di fatti, di accadimenti, di anni, di tempi ma come periodizzazione, come di fasi di cui l’una risulta fondativa dell’altra “Quando ero fanciullo …, quando sono diventato uomo…” diceva e ci fa dire Paolo (1 Cor 13:11). Molto belli i versi de “La Vita attende”: A vent’anni…,/ A trent’anni …/ A quarant’anni …/ A cinquant’anni …/ A sessant’anni …/ A settant’anni …/ Non c’è età per chi vive / ogni giorno come / un giorno nuovo. (…). Non è menzionato l’autore di questi versi; v’è da ritenere che siano dell’Autrice di “Guarire le ferite” (p. 49-50. Cfr nota n. 10).

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Penso alle ricorrenti formule fondamentaliste che clonano infinite forme di monocomportamento, formule che ingoiano soggetti – che siano Giona o Pinocchio poco importa - per i quali v’è solo da sperare il rivoluzionario rigurgito che rigetta verso nuovi lidi ed orizzonti. È il miracolo che chiedo alla storia se della storia Dio è il Signore. Con formule fondamentaliste ci si identifica per mera appartenenza ma non si acquisisce matura identità. Abbiamo bene appreso che identificazione e identità non costituiscono un binario, non sono le due rotaie dell’unico binario, suggeriscono solo una divaricazione: l’identificazione assorbe, prosciuga, l’identità esalta, proietta. “Finchè siamo di parte, chiusi e identificati in una situazione, siamo una provocazione e per reazione anche gli altri e gli altri gruppi tendono a difendersi in senso particolaristico e regressivo” (Guarire…, p. 69). Diversamente il pluralismo, a partire da quello delle nostre proprie identità che variano con il variare dei rapporti che istauriamo e delle situazioni che ci avvolgono. Oh, quei conflitti, quelle eterne risse, di carducciana memoria! Ci accorgiamo che siamo questo … ma anche …, ma anche … Entriamo ed usciamo dalle nostre identità prodotte o determinate dall’altro, dagli altri quali nostri prossimi nelle diverse circostanze. Non si tratta di camaleontismo sociologico o antropologico ma solo di libertà di essere nella concretizzazione di una flessibilità comportamentale funzionale al mio relazionarmi e abbandonando ogni presunzione di attaccamento a ciò che caparbiamente crediamo inflessibilmente di essere. “Le più belle anime (: sempre nuove in tutti, Hesse :) sono quelle che hanno più varietà e souplesse”, cioè duttilità, malleabilità, adattabilità, flessibilità”

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Gli altri sono tutti coloro che ci dischiudono prospettive esistenziali nuove che potranno pur mettere in crisi le nostre autoimmagini ma ci aiutano ad osservarci ed a liberarci da narcisismi idolatrici. Si pensi alla differenza tra chi vive in un piccolo comune di poche anime e chi vive in una grande città. Che differenza tra l’impaccio provinciale e la mentalità metropolitana! Narciso si guardò nello specchio dell’acqua di un lago e si innamorò di se stesso! Sarebbe stato lo stesso se si fosse mirato nelle acque del mare?

Non si tratta di trastullarci nel balletto delle identità nominalistiche ma di saper sviluppare le nostre possibilità di essere ‘utili’ agli altri, possibilità che si annullano quando ci chiudiamo all’interno di autodefinizioni; queste escludono da quelle forze più esaltanti che derivano dall’agàpe che, in essenza, è un saper essere-con-gli-altri e un voler essere-per-gli-altri. Se è vero, ed è vero, che “la natura umana è storica, gli individui (gli altri) hanno storie diverse e quindi (anche) bisogni diversi” che richiedono atteggiamenti diversi all’interno di una perdurante prossimità. Oh, se lo capissero, per es., gli insegnanti o quanti hanno funzioni professionali legate alle persone umane! Quanto spesso si ascolta: ‘sono imparziale, tratto tutti ugualmente!’. Grande e grave errore. Penso per un istante alla nota, lapidaria formula: ‘La legge è uguale per tutti’. Ebbene, la grandezza di un magistrato sta senz’altro nel crederla, ma soprattutto nel capire, per quell’ermeneutica giuridica che gli deve essere propria, che se è vero che la legge è uguale per tutti, tutti sono delle singole eccezioni dinanzi alla legge. Va altresì ricordato che “l’uguaglianza dei provvedimenti non riduce la competizione: intensifica la contesa”. Scatta il vero dell’asserto ciceroniano “Summum jus, summa iniuria!” (Perfetta giustizia / Perfetta ingiustizia).

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Il rapporto io-gli altri fonda una relazione che, se valutata rettamente, è pur sempre una relazione di aiuto ove gioca un ruolo determinante la ‘reciprocità’ in un clima di autentica gratuità. Il tentativo ambiguo di vedere l’altro come oggetto e l’esperienza dolorosa di essere visti noi stessi quali oggetti dell’altro, segnala la comune sofferenza di vivere una identità ferita, incapace di stabilire una giusta relazione, il che produce sofferenza e dolore; e non tanto dolore fisico, il che sempre può accadere per somatizzazione, bensì di sofferenza, di dolore mentale che spesso ci fa chiedere cosa possa esser mai la ‘normalità’. Ascoltiamo il Natoli: “Mentre nel dolore fisico io sono colpito nel corpo e quindi la condizione in cui mi trovo rende difficile il mio relazionarmi con gli altri, nel male della mente sono incapace io di relazionarmi, cioè tutta la dimensione di possibilità che ho dinanzi è disturbata. La malattia mentale è per definizione malattia della relazione, E' l’incapacità di instaurare collegamenti con il mondo e con gli altri (…). Da questo punto di vista, possiamo capire come il dolore si presenti come un’esperienza individualizzante e individuale. Proprio perché inchioda e spezza una relazione, produce una distanza tra sé e gli altri. Questo non perché gli altri siano cattivi (anche se cattivi ed indifferenti ci sono), ma perché i ritmi della vita altrui non sono coincidenti”. Qui esplode il bisogno per eccellenza: «il bisogno di fraternità, di solidarietà sociale, di appartenenza civica. I bisogni possono sussistere solo quando il linguaggio che li esprime è adeguato. Parole come fraternità, appartenenza e comunità, sono tanto gravide di nostalgia e di idealismo utopico da risultare pressoché inutili come guida alle concrete possibilità di solidarietà nella società moderna». Martin Buber aggiungerebbe: “Questo è l’amore per gli uomini, sentire di che cosa hanno bisogno e portare la loro pena” (Guarire, p. 7).

Io senza di te non sono. “Non esistiamo se non in contatto con gli altri” (Guarire, p. 83). Un apologo del maestro dei sufi dervisci, Rumi. Egli bussò alla porta dell’amata dicendo: “Sono io Rumi!”. La donna replicò: “Qui non c’è posto per due”. Rumi se ne andò a riflettere e a pregare. Poi tornò alla casa dell’amata e bussò di nuovo. “Chi è?”, chiese la ragazza. “Sei tu!”. E la donna spalancò la porta e lo fece entrare.

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“Fare entrare”: è invito alla ‘comunità’ ove gli altri, lungi dall’essere il nostro inferno costituiscono la nostra pienezza; di ciascuno!

La comunità, il luogo ove non l’arido – pur necessario – diritto trionfa, ma ove soprattutto vige nei membri l’intimo imperativo categorico per il quale ognuno potrebbe/dovrebbe presentarsi come Gesù si presentava: “Sono io, non temiate!” (Gv 6:20): sono disarmato, senza aspirazioni aggressive o iperaffermative.

E' l’autocriticità dell’essere che stabilisce il senso della comunità. Non una norma, ancorché ecclesiastica e non meno dura di quella civile, ma la libera adesione all’altro. Il travagliato scorrere del tempo non ha fatto perdere alcunché di quella formula paradigmatica della chiesa degli Atti: “La moltitudine di coloro che avevano creduto …, nessuno diceva…” (At 4:32). Tutti e ciascuno! Non risonanza di massa – spesso matrice di totalitarismi! – ma adesione dell’uno agli altri sul cui volto si intravede quello di Dio la cui immagine – imago Dei! – va senz’altro ristabilita.

Lasciando ad altro tempo il tema de “la comunità”, del quale quanto stiamo discorrendo è propedeutico, concludo pensando ad un incontro che in qualche modo ci consente di e ci incoraggia a sollevare il nostro sguardo in alto.

Giacobbe sta per incontrare con grande paura il fratello Esaù. Un uomo misterioso lo affronta e Giacobbe lotta con lui, ma solo dopo intuisce qualcosa; solo quando il misterioso personaggio decide di allontanarsi e allontanandosi gli chiede: “Qual’è il tuo nome?” (Gn 32:28). Nel nome v’è la storia, la nostra storia, la nostra identità.

Giacobbe declina il suo nome: “Giacobbe”, cioè ‘soppiantatore’. Non s’accorge che è stato invitato alla confessione, perché possa seguire la benedizione richiesta: “Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto”. (Gn 32:29). In una nuova condizione del , pur visibilmente zoppicando, si avvia ad incontrare Esaù, l’altro.

Se a Peniel Giacobbe s’incontra con il volto-non-visto di Dio, abbracciandosi con Esaù può dire: “Io ho visto il tuo volto come uno vede il volto di Dio” (Gn 33:10b). Quel volto divino che si nasconde – Deus absconditus! – si dischiude nel volto dell’altro!

“Chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto” (1 Gv. 4:20).

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Un rabbino era solito domandare al suo discepolo: “Quand’è che termina la notte e inizia il giorno?”. Il discepolo, dopo vari tentativi di risposta, si rimise, scoraggiato, al maestro, che infine gli disse: “Quando tu vedi sul volto dell’altro il volto di un fratello, allora è terminata la notte ed è cominciato il giorno” (Midrash ebraico).

 

Il naso fra i libri

a cura di Sara Pasqui Rivedi

 

Una scrittrice ritrovata: Irène Nemirovsky

 

Irène Nemirovsky nasce nel 1903 a Kiev, in Ucraina, figlia unica di un ricco banchiere ebreo la cui famiglia proveniva da una cittadina dell’Europa Orientale abitata da ebrei molti dei quali certamente avevano sperimentato nel corso della Storia la violenza dei pogrom così frequenti in quell’area geografica. La madre è una donna molto bella, ma assai frivola ed egoista ed avverte la presenza della figlia dapprima come un fastidio ed in seguito come un ostacolo poiché la considera una possibile rivale. Sarà la governante francese a prendersi cura della fanciulla in quanto non solo le insegnerà la lingua e la letteratura francese, ma sostituirà a tutti gli effetti la figura materna.

La Rivoluzione dell’ottobre 1917 costringe i genitori della scrittrice a rifugiarsi in Francia, Irène si inserirà facilmente nella nuova realtà poiché ne conosce la lingua, tuttavia le mancheranno il clima freddo della sua terra natia e la vitalità festosa dei porti del Mar Nero. Probabilmente per questo motivo alcuni dei suoi racconti sono ambientati in Russia. Il padre riesce in breve tempo e con grande disinvoltura a ricostruire la fortuna perduta in patria e quindi può offrire nuovamente alla moglie, avida di lusso e divertimenti, le ricchezze di cui beneficerà anche la figlia la quale tuttavia prova profondo disprezzo per gli ebrei dediti solo ad accumulare denaro e lo manifesta sovente attraverso i suoi libri tanto da essere accusata di antisemitismo per alcune espressioni sarcastiche e pungenti . I.N. si difenderà da questa accusa dichiarando nel 1935, in una intervista rilasciata all’Univers israélite di essere orgogliosa della sua ebraicità e spiegando che le sue critiche sono rivolte solo ad un particolare tipo di ebrei. È certo però che la giovane donna sceglie l’assimilazione, si converte al cattolicesimo e scrive i suoi libri in francese, malgrado ciò non riuscirà a conciliare la sua natura slava con l’educazione ricevuta, prettamente francese; e purtroppo non otterrà mai la cittadinanza dal paese che la ospita. Giunta in Francia a sedici anni condurrà la vita della ragazza appartenente ad una ricca famiglia, infatti studierà alla Sorbona e presso questa università conseguirà la laurea. Ha solo ventiquattro anni quando la rivista Les oeuvres libres pubblica L’enfant genial . Nel 1929 presso l’editore Grasset esce David Golder con cui I.N. si afferma come scrittrice conquistando fama e successo. Da allora fino al giorno dell’arresto pubblica quindici libri cupi e violenti tanto che l’editore del suo primo romanzo esita a credere che questo sia opera di una giovane donna rampollo della ricca borghesia. Secondo Elisabeth Gille la scrittrice cela dietro un aspetto gioioso ed allegro, come appare in una foto del 1930, uno spirito tormentato, umbratile ed al tempo stesso assai precoce e fortemente sensibile forse perché in tenera età aveva sperimentato l’indifferenza materna, l’avidità del padre e dunque la solitudine e l’abbandono, ma anche l’esilio e l’impossibilità di far ritorno al proprio paese. Il suo ultimo romanzo si intitola Suite Française alla cui stesura si dedica fino al momento dell’arresto avvenuto il 13 luglio 1942, in esso l’Autrice descrive le condizioni della Francia durante l’occupazione nazista.

Nel 2004 il libro ha vinto il Prix Renaudot che per la prima volta è stato assegnato ad uno scrittore non vivente. Quest’anno alla Fiera del libro di Francoforte è stato dedicato a I.N.uno spazio e così l’opera di questa scrittrice scomparsa nell’abisso concentrazionario e di conseguenza caduta nell’oblio più totale può finalmente essere conosciuta, apprezzata, rivalutata. Al momento in cui Irène viene arrestata dai gendarmi francesi, avviata al campo di raccolta ed in seguito deportata ad Auschwitz dove troverà la morte, si nascondeva in un piccolo villaggio della Saône già dal 1940 per sfuggire alle leggi razziali del governo di Vichy. Anche il marito, Michel Epstein, scomparirà in un campo di sterminio, solo le due figlie le sopravviveranno poiché la scrittrice era riuscita a metterle in salvo. In Italia, fino a pochi mesi fa, solo la casa editrice Giuntina proponeva un libro di I.N. Un bambino prodigio con la prefazione di Elisabeth Gille. Feltrinelli aveva pubblicato nel 1989 Le mosche di autunno e nel

1992 David Golden, ambedue ormai fuori catalogo. Ora Adelphi si propone di pubblicare l’opera integrale della scrittrice e proprio in occasione della Fiera del Lingotto a Torino ha presentato il romanzo breve Il ballo (1928) considerato dalla critica un piccolo capolavoro della narrativa.

 

Un bambino prodigio

 

Il libro narra la storia di Ismaele Baruch figlio di una numerosa e poverissima famiglia ebrea che vive ai margini della società in condizioni di estrema indigenza. La vicenda è ambientata in una grande città sulla costa del Mar Nero. Il ragazzo viene affidato dal padre ad un rabbi perché apprenda a leggere, a scrivere e a far di conto. Ma il piccolo Ismaele – ha solo dieci anni – detesta l’aritmetica, si rifiuta di imparare a contare e così scappa di casa ed inizia una vita randagia vagabondando per il porto ed incontrando uomini e donne di ogni genere. Trascorre le notti in una bettola dove gli avventori si divertono a farlo bere, impara da un marinaio dolci e malinconiche canzoni e ben presto diventa famoso per il suo canto melodioso e la voce dalle vibrazioni cristalline. Ama improvvisare e compone versi semplici, ingenui, ma pieni di sentimento. Una sera viene ascoltato da un barin che decide di regalarlo ad una principessa di cui si è innamorato. I genitori del ragazzo sono ben lieti di cederlo in cambio di un buon guadagno e così Ismaele, vissuto nella miseria più squallida e degradante, improvvisamente scopre il lusso, l’eleganza, la bellezza e si abitua rapidamente ad essere vezzeggiato e coccolato. Per la volubile nobildonna rappresenta solo un passatempo, lo accarezza come se fosse un cucciolo ed ascolta divertita le sue canzoncine, ma quando il fanciullo cade gravemente ammalato ne prova subito fastidio, decide di partire per un lungo viaggio lasciandolo alle cure della servitù. Ismaele lentamente guarisce, si trasforma in un adolescente dai lineamenti marcati e rozzi, anche la voce diventa rauca e le dolci canzoni che affascinavano chi lo ascoltava non sgorgano più dalla sua gola: la bella fiaba del bambino prodigio è finita! Al suo ritorno l’orgogliosa e volubile principessa non mostra più interesse per lui ed allora, deluso e sconsolato, il ragazzo fa ritorno presso i genitori i quali lo accolgono malissimo perché non possono più trarre profitto da quel genio mancato. Il padre pensa bene di collocarlo presso un sarto affinché impari un mestiere e porti a casa qualche soldo. Ismaele, con l’angoscia nel cuore, in una fredda notte d’inverno si avvia verso il porto e ritorna alla taverna della sua infanzia, ma i clienti non sono più gli stessi, tuttavia riconosce, seduto in un angolo, il barin invecchiato e male in arnese e gli si avvicina. Ambedue sono stati abbandonati dall’ingrata principessa, cominciano a bere e l’uomo evoca la morte come liberazione: la mattina seguente i lavoratori del porto scopriranno il corpo senza vita di Ismaele, il ragazzo si è impiccato. È una storia di una crudeltà feroce, ma anche di un intenso realismo, stupisce che a scriverla sia stata una ricca e giovane donna di appena ventiquattro anni e rivela una forte capacità di intuizione, di percezione psicologica, una esperienza della sofferenza quasi impensabile, una netta consapevolezza del lato oscuro dell’animo umano. Nel libro si avverte sovente una punta di perversione, di ambiguità dei personaggi che si muovono attorno al piccolo protagonista. Le vivide descrizioni del porto e della piazza del mercato pullulanti di gente dalle razze e dalle estrazioni sociali più diverse rivelano l’amore dell’autrice per la sua terra e la nostalgia che spesso l’assale. La solitudine e l’abbandono in cui si trova fin dall’inizio Ismaele hanno senza dubbio dei richiami autobiografici perché Irène si sente sola e trascurata essendo il padre sempre assorbito dagli affari ed escludendola la madre dalla propria vita.

A proposito del suo supposto antisemitismo, dopo aver letto anche Il ballo ho la convizione che I.N. detestasse non particolarmente gli ebrei arricchiti, ma tutti i noveaux riches cioè quella borghesia mediocre e meschina che ad ogni costo vuol conquistare un posto nella buona società. Ecco allora le frasi taglienti, sarcastiche, irridenti e sprezzanti di cui sono oggetto alcuni personaggi dei suoi romanzi come la coppia dei Kampf de Il ballo. Senza dubbio l’Autrice si rivela disincantata, amara e ben consapevole delle debolezze umane. Elsa Morante soleva distinguere tra scrittore e scrivente, si può affermare senza rischiare di eccedere nella valutazione e nel giudizio che Irène Nemirovsky è una vera scrittrice.

 

Dalla Libreria Claudiana, segnalazioni del mese:

 

Maria Bonafede, Una porta nel cielo. Le domande aperte della fede. Edizioni Com Nuovi Tempi, roma 2004, pp.175, € 13,00

Salutiamo la notizia della elezione della pastora Maria Bonafede a prima moderatora della storia valdese segnalando ai lettori di Diaspora la raccolta dei suoi sermoni pubblicata da Com Nuovi Tempi. Pagine celeberrime della Bibbia (Giacobbe e la lotta con l’angelo, Abramo e Isacco, “il vento soffia dove vuole…”, e tante altre ancora) ci vengono restituite dall’Autrice rinnovate e ricche di senso per la nostra quotidianità.

 

Arnaldo Pangrazi, Sii un girasole accanto ai salici piangenti. Dialoghi con i malati, Edizioni Camilliane, Torino 2002, pp.192, €13,00

Una lettura formativa per chi, per servizio o semplicemente per le circostanze della vita, si ritrova accanto a persone in condizione di sofferenza e malattia. Attraverso il racconto di casi clinici ed esperienze concrete di dialogo con i malati, l’Autore ci ricorda che all’ombra di ogni salice piangente è nascosto un girasole: simbolo di speranza come tutti coloro che riflettono luce e comprensione.

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Linea Telefonica KO

Un guasto tecnico dipendente dalle centraline Telecom ha isolato la linea telefonica della Libreria Claudiana di Firenze nel periodo compreso dal 21 agosto fino alla mattina del 3 settembre. Lo stesso inconveniente tecnico si è verificato dal giorno 15 al 19 settembre. Chi ha tentato di chiamarci ha sentito il tipico segnale di “libero”: in realtà la linea era muta. Ovviamente fuori uso anche l’uso di segreteria telefonica e posta elettronica. Identica situazione la mattina del 22 settembre, anche se questa volta il segnale dava “occupato”. Il disagio di chi ha invano tentato di telefonarci è stato anche il nostro. Ci scusiamo con gli interessati.

Notizie dalle chiese fiorentine

 

Dalla Chiesa Battista

Agosto ha regalato una piacevole sorpresa per tutta la comunità: 4 predicatori esordienti (o quasi esordienti): Dunia Magherini, Carlo Mazzola, Eddy e Paolo Biagini hanno assicurato la continuità dell’annuncio dell’Evangelo in Borgo Ognissanti. Da segnalare una bella esperienza: Gloriana Innocenti, Dunia Magherini e Danilo Baconi hanno partecipato al campo di formazione sul tema “la Relazione d’aiuto” tenutosi a fine Agosto presso il Centro Battista di Rocca di Papa (Roma).

 

Fiocco Azzurro in casa Claudi

Il 6 agosto è nato Leandro Massimo

di Mauro e Ylenia Claudi

Auguri ai genitori e alla neo-nonna Laura Jones

 

Settembre è ripreso con la riunione del Consiglio di Chiesa che nella seduta del 1 settembre ha deliberato la programmazione delle attività dell’anno ecclesiastico 2005-2006. Anche il gruppo delle monitrici si è riunito in vista dell’inizio della Scuola Domenicale previsto per il 2 Ottobre 2005. Il responsabile della manutenzione Renzo Ottaviani ha continuato a seguire quanto necessario per l’impianto di riscaldamento, la cucina e quant’altro. Dopo il nubifragio del 9 settembre Mauro Galli, responsabile delle pulizie, è stato visto camminare sulle acque che avevano invaso la sala riunioni, penetrando nel locale di culto.

Domenica 18 settembre è cominciato il Corso elementare di Omiletica “Come preparare un sermone e come predicare” tenuto dal past. Raffaele Volpe (in sostituzione del past.Bensi) con una bella partecipazione: 20 presenti su 28 iscritti!

Giovedì 22 settembre è ripresa la riunione di preghiera in casa Brandoli-Tonarelli.

Fiori d’arancio

Felicitazioni alla famiglia Lentini Innocenti per il matrimonio di Robert e Jessica.

Tutta la comunità si stringe intorno ai giovani sposi.

Un abbraccio a Grazia: “vicini per chilometri, vicini per stagioni…”

 

Settembre ha significato qualche giorno di ospedale per il pastore Piero Bensi e per Adriana Targetti: auguri di pronta guarigione.

 

Appuntamenti Ottobre:

 

Mercoledì 5 ottobre – ore 17:00 e ore 21:00 alla Chiesa Battista in Borgo Ognissanti 4

riprendono gli studi biblici del pastore Raffaele Volpe. Il tema trattato quest’anno sarà: “l’Apocalisse di Giovanni”.

 

Mercoledì 5 ottobre – ore 17:30 alla Libreria Claudiana in Borgo Ognissanti 14R: presentazione del libro di poesie di Paolo Fabbri “Piansi al suo pianto (Ed. Polistampa 2004). Intervengono Guido Oldani e Alberto Caramella.

 

Sabato 8 ottobre – ore 17:00 alla Chiesa Battista in Borgo Ognissanti 4: “Voi sarete miei testimoni. La fede nella società dell’incertezza”. Interventi di Massimo Aprile, Vasile Budeanu, Patrice Kouku, Lia Goicochea. Con la partecipazione dei gruppi musicali delle chiese battiste della Costa d’Avorio, Rumena e Peruviana.

 

Domenica 9 ottobre – alla Chiesa Battista in Borgo Ognissanti 4 - Culto in comune tra battisti italiani, peruviani, rumeni e ivoriani. Predicazione del Past. Massimo Aprile. Segue Agape.

Dalla Chiesa Metodista

Un grave lutto ha colpito la chiesa metodista e tutto l’evangelismo fiorentino: è venuto a mancare alla venerabile età di 92 anni Lando Mannucci, nostro predicatore locale, già membro del Consiglio e suo presidente. E’ stato anche presidente del Centro Sociale Evangelico, è veramente una perdita per tutte le chiese fiorentine. La sua è stata una vicenda singolare: ufficiale di fanteria si è trovato col suo battaglione in Jugoslavia l’8 settembre 1943 interpretando, almeno secondo noi, nel modo giusto gli eventi ha trascorso i successivi anni con i suoi uomini a combattere contro i nazisti, insieme alle forze di Tito, trasformando la truppa italiana in un centro di resistenza partigiana garibaldina. Tornato a casa ha fatto l’ufficiale di carriera sulle Alpi e poi a Catanzaro. Infine da pensionato si è dedicato al mondo della cooperazione.

Lando Mannucci ha unito all’appassionato lavoro politico per la giustizia un servizio incessante nella chiesa e per la testimonianza nella città. L’hanno ricordato i suoi amici “garibaldini” che sono affluiti numerosi da tutta la Toscana a gremire la chiesa di via de’ Benci e Valdo Spini, insieme al past. Augusto Giron che ha tenuto il suo funerale.

Viva simpatia va ai suoi familiari, a sua moglie Anna Maria, a sua figlia Cristina, a suo fratello Cola. Resta a noi il ricordo del suo impegno appassionato, risorgimentale e del suo desiderio vivissimo che sia comunicata ai giovani la fede evangelica, come fondamento per la rinascita del nostro paese.

 

Calendario degli Studi Biblici: sempre alle 18

 

6 Ottobre in casa di Loretta Secchi (Via S. Gallo 123—tel. 055 499219)

20 Ottobre in casa di Margherita Gallini, Via Eleonora Duse 11—tel. 055 610223)

3 Novembre in casa di Romano Donnini, Via S. Domenico 57 (tel. 055 589540)

Dalla Chiesa Valdese

 

Fervono gli incontri interreligiosi: se n’è tenuto uno anche a v. Manzoni all’inizio di settembre; il 29 è prevista una cena dei nostri giovani con un gruppo di ragazzi palestinesi e israeliani mandati a respirare un po’ d’aria di pace dalle riviste Confronti e Qol, qui seguiti e accompagnati dal gruppo Proteo fiorentino.

Intanto si progetta la continuazione degli incontri in Via Spaventa e per il 29 ottobre la fine del Ramadan con una festa collettiva. Molto importanti gli incontri che prevedono anche condivisione di cibo; come si può immaginare non sono per niente facili, ma sono quelli che restano “dentro” e poi possono germogliare nei rapporti di stima e di amicizia che desideriamo.

Molti fratelli e sorelle hanno avuto problemi di salute e sono stati in ospedale, chi per ricerche (Gino Conte), chi per interventi (Lidia Giuliani, Sara Sansone, Anna Spini); Liliana Tofanari si è rotta il polso sinistro;: Salvatore Caponetto e Edy Ricci sono caduti in casa, ma per fortuna non hanno nulla di rotto.

Delia Fontana ha compiuto 99 anni il 14 settembre ed è stata festeggiata dai parenti e nipoti, oltre che dalle nostre visite; ma aspettiamo i 100 per intervenire più massicciamente!

Il Concistoro ha tenuto una prima riunione martedì 13 settembre e un’altra il 30, sta lavorando al progetto di creare un bagno per portatori di handicap in v. Manzoni e per avviare i lavori di sistemazione dell’Archivio e della Biblioteca. Le risorse finanziarie sono scarse, bisognerebbe chiedere finanziamenti di supporto, ma anche questo è un lungo lavoro, per il quale necessitiamo di volontari. La Scuola Domenicale inizierà il 9 Ottobre; per prepararla abbiamo avuto un bell’incontro in v. Manzoni fra monitrici, genitori e bambini.

La prossima assemblea si terrà domenica 2 Ottobre con le relazioni dalla Conferenza Distrettuale e dal Sinodo e la programmazione delle attività dell’anno. Un rapporto dal Sinodo già scritto da Bruna Rosa Sabatini, nostra deputata, sarà pubblicato sul prossimo numero di Diaspora.

Ernesto e Marcella Olivieri sono lieti di dare la notizia che la loro nipote Rugiada si è laureata a pieni voti alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna con la specialità culturale in “Musica e Discipline del Teatro”. Vivissimi auguri da tutti noi!

Domenica 23 Ottobre ci sarà l’Assemblea di Circuito a Carrara.

 

 

Dalla Chiesa Apostolica Italiana

Con gioia vera e fraterna cordialità comunichiamo che nel corso della Assemblea Nazionale della Chiesa Apostolica Italiana, tenutasi a Firenze nella giornata di domenica 25 settembre 05 il fratello Samuele Trebbi è stato ordinato al "ministero pastorale (di coordinamento)". Il candidato ha discusso con la comunità la tesi(na): "Il servizio cristiano come risposta all'amore di Dio". All'interno del consiglio di chiesa sono previsti i seguenti servizi:

Rapporti con l'Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste (Sig. Franco Magni);

Rapporti con l'evangelismo che si riconosce nel Consiglio dei Patsori di Firenze (Sig.a Katia Luzzi);

Servizio amministrativo, Brachi Marco-Laura Trebbi-Paolo Roncavasaglia.

La Sig.a Rossella Mugnaioni rimane confermata nella funzione di Presidente del Consiglio Nazionale di Coordinamento per il biennio 2005-2006/2006-2007.



Domenica 16 Ottobre 2005

Festa della Riforma

Chiesa della Trinità (Chiesa Valdese)

Via Micheli, ang. Via La Marmora, Firenze

 

Le chiese evangeliche di Firenze invitano ad una giornata di festa e di comunione aperta a tutti:

Programma della giornata:

 

ore 10.30: Culto con Cena del Signore

predicazione di Paolo Ricca

programma per bambini

il culto sarà preceduto e seguito da un breve concerto

del Coro Gospel di Nehemiah Brown

 

tempo libero (pranzo al sacco)

 

ore 15.30: canti e cori proposti dai partecipanti,

dai gruppi etnici e dalle singole chiese

 

ore 17: Tavola Rotonda “Sempre da riformare?

con la partecipazione

del prof. Paolo Ricca (Chiesa Valdese),

prof. Serena Noceti (Chiesa Cattolica),

prof. Paolo Bagnoli (Chiesa dei Fratelli)

Moderatore. Roberto Vacca

(Radio Voce della Speranza)

 

Tutti sono invitati!