Deut. 8, 6-10 “La terra come eredità”

 

C’è una forza poetica nella descrizione della “terra promessa” che ha trascinato e commosso molte generazioni. La prima cosa che viene descritta è l’acqua (corsi d’acqua, laghi, sorgenti), poi il cibo (frumento, orzo, vigne, fichi, melagrani, olivi, latte, che vuol dire mucche e vitelli, miele selvatico), “mangerai pane a volontà”, “non ti mancherà nulla”; poi si passa al mondo che oggi chiamiamo industriale (ferro  e miniere di rame). C’è un godere della natura spontanea e poi c’è il lavoro umano. Ogni generazione viene dopo altre e può sentire così il proprio rapporto con la terra e con il lavoro, a parte le scoperte che fanno fare passi in avanti all’intera storia umana. Poi c’è la tecnologia che infatti cambia ed allarga i confini dell’utopia della “terra promessa”, forse però a discapito del rapporto con la terra e vera e propria.

Vien fatto di chiedersi dov’è questo “paese dove scorre il latte e il miele”, se è da identificare nella sassosa e arida Palestina, o se la parola biblica vuol definire ogni parte della terra, come possibile terra promessa. In effetti, anche se ormai nelle città abbiamo rapporto solo con cemento e asfalto, con l’aggiunta di qualche affollato parco pubblico per portarci i bambini, ogni parte della terra ha particolarità e bellezze che ci lasciano senza fiato, compresi i deserti e i poli ghiacciati. L’altra domanda è: a chi è stato promesso il bel-paese e com’è stato diviso. L’antenato storico della prima promessa è Abramo. “Esci dalla tua terra… e va nel paese che io ti mostrerò” (Gen.12,1). Da lui discendono tutti i popoli della terra, o almeno molti che vi si richiamano. C’è poi come un “ritardo” nella attuazione della promessa della terra: Abramo vi abiterà senza saperlo e poi possederà solo la grotta del campo di Macpela, dove seppellirà Sara (a Hebron), comprandola a Efron l’Ittita (Gen.23). Questo “ritardo” nell’attuazione della promessa corrisponde all’arrivo di Mosé fino al Giordano, al suo vedere dal Monte Nebo la terra promessa, senza potervi entrare.

“A te e ai tuoi discendenti” è la formula usata nella promessa divina; come sappiamo la discendenza fa parte della promessa ed è particolarmente importante per Abramo e Sara che sono sterili. I “discendenti” degli israeliti usciti dall’Egitto sono quelli che entreranno con Giosuè nella terra di Canaan passando il Giordano e si insedieranno forse ai margini delle città cananee come pastori semi-nomadi, a volte conquistando, o essendo tollerati, a volte scacciati da altri popoli. Se sono i discendenti i destinatari veri e propri della promessa si può capire come la terra si possa configurare come “eredità”. La terra un tempo poteva esser conquistata o ereditata, non comprata; si pensi alla risposta di Nabot al re Acab che voleva comprare la sua vigna (1 Re 21).

La terra promessa è data in eredità dal Signore al suo popolo: “Voi dunque passerete il Giordano e abiterete il paese che il Signore, vostro Dio, vi dà in eredità” (12,10  vedi anche 4,21 e molti altri passi). E’ un concetto giuridico di valenza teologica: il paese viene messo a disposizione, ma rimane proprietà di Dio. “La terra è mia e voi state da me come stranieri e come ospiti” afferma Dio in Lev. 25, 23. Questo concetto sta alla base del principio dell’Anno Sabbatico e del Giubileo. I campi si lavorano per sei anni e poi si lascia la terra riposare per un anno intero, come Dio si riposa dalla buona creazione che ha fatta. Si vivrà bene lo stesso anche se mancherà il raccolto di un anno, perché si potranno conservare provviste negli anni precedenti. I poveri si avvantaggeranno dei raccolti che verranno spontanei dalla terra nell’anno sabbatico. Il Giubileo sarà ogni sette settimane di anni, sette volte sette anni (49 anni) poi squillerà la tromba nel giorno delle Espiazioni e si proclamerà il cinquantesimo anno come anno della Liberazione e del ritorno della terra ai proprietari che se ne erano disfatti per debiti.

Siamo in piena utopia; è come sognare ad occhi aperti i nuovi cieli e la nuova terra dell’Apocalisse, dove non ci sarà più il dolore, scomparirà perfino il mare, visto come simbolo del disordine primordiale. Non sappiamo se e per quanto tempo gli ebrei abbiano attuato le regole suggerite da Lev. 25 o se hanno semplicemente continuato a tenerle davanti a sé, come facciamo anche noi, come l’utopia che non c’è, o non c’è ancora, ma dovrebbe esserci perché allora il mondo sarebbe migliore.

Certo l’affermazione che Dio è proprietario della terra e noi l’abbiamo in uso sdrammatizza il concetto di possesso e lo universalizza nel momento in cui affermiamo l’unicità di Dio: “I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data agli uomini” (Sal. 115, 16). E’ come se dicesse l’intera umanità, non solo Israele. Dunque le divisioni sono umane e parziali, modificabili; devono essere ancorate a criteri di giustizia. La terra è lo spazio dove si riconosce l’intervento del Dio Creatore, dove si ascolta la sua chiamata e si risponde osservando i comandamenti. La terra è dove si risponde al Patto di Dio restandovi dentro a qualunque costo. Dio è quello che dà la forza di procurarsi benessere e ricchezze.

La terra però è un’eredità che deve esser tenuta per preziosa e per la quale bisogna adoperarsi, se si vuole conservarla altrimenti potrebbe andare perduta. Lo stretto legame che Israele ha visto fra la propria storia e la fede, anche se ci fa problema, va considerato a fondo. Ogni volta che Israele è stato sconfitto e deportato in esilio, invece di inveire contro la malasorte o contro i nemici Israele viene rimproverato dai suoi profeti per non aver obbedito ai comandamenti di Dio, per non esser stato fedele al Patto; per questo viene punito, ma non cancellato dalla storia. Dio non può smentire se stesso e le sue promesse, dunque dopo tempi di angoscia verranno tempi lieti, perché Dio mantiene il giuramento fatto ai padri.

La riflessione e raccomandazione che tornano insistenti è che Dio ha scelto il suo popolo non per i suoi meriti, non per il numero o il coraggio (7,7  8,17  9,5) o per la sua giustizia o rettitudine, ma perché Dio lo ama e mantiene il giuramento fatto ai padri. La salvezza per grazia annunciata dal Deuteronomio somiglia alla giustificazione per fede dell’apostolo Paolo. Le opere seguono come l’osservanza ai comandamenti, sono regole di vita che ci sono state date per il nostro bene.

Il Bel-Paese si può perdere, forse è già perduto, se lo si lascia degradare negli anni che verranno. Già solo per questo è indispensabile il dialogo interreligioso, la militanza per la pace, la lotta contro la fame e contro le epidemie, la salvaguardia del creato. Forse la vita dell’umanità continua a svolgersi nella tensione fra la promessa del mondo migliore, che quelli che credono ricevono, ma non vi entrano, però possono adoperarsi perché vi entrino i propri discendenti. Questi a loro volta riceveranno anch’essi una promessa che riguarda le successive generazioni. Tuttavia la storia umana non è volta verso un progresso illimitato, perché, come la storia d’Israele, conosce in continuazione sconfitte, esilio, lunghe marce nel deserto, nelle quali si è assistiti dal Signore.

Il Dio che ci accompagna e che continua a rinnovare le sue promesse garantisce con la sua ostinata fedeltà il loro compimento, perché ci ama e vuol far di noi il suo popolo nel bel-paese che è la sua/nostra terra.